Michele Di Branco, L’Espresso, 16 luglio 2009, 16 luglio 2009
MICHELE DI BRANCO PER L’ESPRESSO 16 LUGLIO 2009
Per le donne c’è posto La crisi incide soprattutto sui lavori degli uomini. E crea un riequilibrio che mille battaglie per la parità non hanno mai ottenuto. la grande occasione per prendersi ruoli e visibilità?
La crisi economica non guarda in faccia nessuno: toglie il lavoro senza fare distinzioni di sesso. Ma i numeri dicono che lo tsunami colpisce più gli uomini delle donne, operando così un primo riequilibrio in un panorama occupazionale che, comunque, resta sfavorevole per l’universo femminile italiano. L’Istat ha registrato che nel primo trimestre 2009 sono stati bruciati 204 mila posti di lavoro: 162 mila tra gli uomini, 42 mila tra le donne. Come dire che queste ultime sembrano resistere meglio alla tempesta. Forse è presto per parlare di una vera e propria tendenza. Però fa riflettere uno studio della Commissione europea (’Equality between women and men in a time of change’) nel quale, anche con riferimento alla situazione italiana, si osserva che "la recessione sta colpendo più uomini che donne, segno che molti settori in cui si è sentito il peso della crisi sono a predominanza maschile".
Secondo Bruxelles, inoltre, la crisi può addirittura diventare un’opportunità: "Bisogna raccogliere la sfida e implementare le politiche attive per l’occupazione femminile, i sistemi di flessibilità e sicurezza, soprattutto per quanto riguarda le tipologie contrattuali: lavoro accessorio, contratto di inserimento, part-time". Sempre l’Istat ha indicato nei maschi capifamiglia i bersagli principali della crisi. E questo perché la recessione ha travolto i loro settori tradizionali: industria e manifatture. "Di contro", osservano dalla Bocconi, che ha curato un recente rapporto sulle diversità salariali tra i due universi, "con la crisi le imprese saranno costrette a premiare il meglio delle loro risorse puntando sul merito. scontato che le donne prevarranno seguendo questo criterio".
La crisi come selezione naturale delle eccellenze femminili? Susanna Camusso, segretario confederale della Cgil, non ci crede: "La selezione la fanno gli uomini, che tendono a scegliersi tra loro, e che discriminano le donne per ragioni culturali e sociali. Basta vedere lo sbilanciamento che c’è, in favore degli uomini, tra i neolaureati. Credo che vada rivisto il sistema del welfare. Senza sostegno di politiche sociali adeguate le donne in cerca di lavoro vengono colpite da un ’effetto scoraggiamento’ che contagia soprattutto le donne meno scolarizzate. Inoltre la crisi colpisce soprattutto i lavoratori con contratti precari e quelli impiegati nei servizi. Quindi donne, soprattutto".
Un’analisi condivisa dalla Confapi: "Le donne accettano più facilmente la cassa integrazione, si concentrano in funzioni impiegatizie più intercambiabili e sono dunque più facili da tagliare". Posizione che vede concorde anche la Confcommercio, che punta l’indice sulle 40 mila imprese del settore che hanno chiuso i battenti nell’ultimo anno: un comparto a occupazione prevalentemente femminile.
Più articolata l’analisi di Linda Laura Sabbadini, direttore centrale Istat: " vero che l’occupazione femminile cala meno di quella maschile. Però questo avviene esclusivamente per l’aumento dell’occupazione femminile straniera. E in particolare nel settore dei servizi alla famiglie (badanti, assistenza agli anziani). In realtà l’occupazione femminile italiana cala nella stessa misura di quella maschile anche nell’industria". Fra qualche mese, probabilmente, il quadro sarà più chiaro, e si potrà valutare se la crisi avrà cambiato i rapporti di forza tra occupazione maschile e femminile in favore di quest’ultima. Ma un elemento che sicuramente potrà cambiarli in futuro sta per arrivare sotto forma di una più lunga permanenza sui luoghi di lavoro nel pubblico impiego. Il governo, infatti, per onorare il diktat europeo, si prepara ad aumentare l’età pensionabile per le statali: ci sarà un innalzamento di un anno ogni 24 mesi, fino a quota 65, come è oggi per gli uomini. Ma da dove partono, le donne italiane? E riusciranno a trovare lo scatto di reni per colmare lo svantaggio che oggi le penalizza nel mondo del lavoro? L’ultima fotografia del lavoro femminile in Italia è stata scattata dal professor Emilio Reyneri per il Cnel in un Rapporto commissionato dal Parlamento, e disegna un quadro di profonda ingiustizia nei confronti delle donne. Le italiane contendono alle donne di Malta il primato delle meno occupate d’Europa, e sono confinate nel perimetro dei loro mestieri tradizionali. Hanno contratti più insicuri, paghe più basse, tutele incerte se mettono al mondo dei figli e fanno una fatica enorme a conquistare quei posti di potere che gli uomini si tengono stretti anche se, mediamente, sono meno preparati. Uno studio che lascia pochi spiragli anche per il futuro. Nel 2010, ad esempio, l’Italia non riuscirà a centrare gli obiettivi indicati dal Consiglio di Lisbona di dieci anni fa: occupazione al 60 per cento per le donne fra i 15 a 64 anni. Il livello attuale si ferma infatti al 46 per cento e i numeri dicono che non basterà trovare un lavoro a tutte le donne che oggi lo cercano perché il tasso di attività, che misura le persone in cerca di lavoro, non raggiunge il 51 per cento. Un numero bassissimo che il Rapporto spiega soprattutto con la rinuncia, sempre più consistente, delle donne meridionali ad affacciarsi sul mercato. Un effetto che diventa una vera e propria epidemia quando arrivano i figli. Come in tutti i paesi, tranne quelli nordici, anche in Italia la partecipazione al lavoro delle donne adulte con figli è inferiore a quella delle donne senza figli, qualunque sia l’età dei figli. "Io renderei il permesso di paternità obbligatorio per legge", afferma Susanna Camusso: "Le aziende partono con un pregiudizio di fondo nei confronti delle donne al momento dell’assunzione: se il peso della crescita dei figli fosse diviso a metà dall’inizio, le cose cambierebbero".
Il Rapporto affronta anche il capitolo dell’accesso ai ruoli di potere. "Le donne occupate sono più istruite dei maschi (il 19 per cento di laureate contro poco più del 12 dei maschi e il 49 di diplomate contro il 43 degli uomini)", osserva Reyneri: "Però i laureati raggiungono posizioni dirigenziali e intellettuali più spesso delle laureate. Tra coloro che sono in possesso di un diploma, i maschi sono sovrarappresentati tra i dirigenti e nei lavori operai specializzati e qualificati, mentre le donne si concentrano tra le impiegate e le addette alle vendite e ai servizi alla persona". A dispetto dei percorsi formativi mediamente più brillanti, insomma, le donne sono spesso tagliate fuori dalle stanze dei bottoni. E nulla è cambiato negli ultimi 15 anni, nonostante i ripetuti e un po’ ipocriti appelli della politica, degli organismi tecnocratici e delle parti sociali. A conti fatti, oggi solo il 3 per cento delle laureate (contro l’11 dei laureati) fa il dirigente: come nel ’93. "Le donne", afferma l’imprenditrice Marina Salamon, "sono più produttive, più leali e più secchione dei maschi. E come dirigenti si fanno preferire. Purtroppo il sistema legislativo, il clima culturale e una certa tendenza degli uomini a fare ’branco’ le taglia fuori dai posti di potere. Fra qualche generazione le cose cambieranno: oggi purtroppo abbiamo un Parlamento mascolinizzato che legifera male". Propone quindi Salamon: "Io accetterei l’idea di andare in pensione a 65 anni in cambio di una buona legge sul part-time". Qualche idea su come cambiare le cose la propone anche il giuslavorista Pietro Ichino: "Il nostro ordinamento si caratterizza per un atteggiamento paternalistico nei confronti del lavoro femminile, che in molti casi si traduce in una remora alla valorizzazione piena della professionalità delle donne. Ascrivo a questo paternalismo anche la differenza nell’età di pensionamento". Ichino propone la sua formula per migliore i livelli occupazionali femminili: "Si può attivare una grande varietà di ’azioni positive’ mirate a costruire una parità effettiva tra uomini e donne. Tra queste la più efficace sarebbe, probabilmente, una misura che non è mai stata sperimentata: la detassazione selettiva del reddito di lavoro femminile. Sarebbe una misura molto efficace perché la domanda e l’offerta di lavoro femminile sono molto più elastiche rispetto al lavoro maschile: cioè aumenterebbero sensibilmente in conseguenza di una riduzione selettiva dell’imposta sui redditi".