Massimo Mucchetti, Corriere della sera 14/7/2009, 14 luglio 2009
ECONOMIST E BILD, GIORNALI CHE VINCONO
La vita è curiosa. Nel 2006 The Economist profetizzava, con piglio provocatorio, la scomparsa dalle edicole dell’ultimo quotidiano nel 2043. Ora la recessione accelera i processi. Molti quotidiani e settimanali, travolti dal calo della pubblicità, vanno male. Ma The Economist Group no. Anzi, il 31 marzo 2009 ha chiuso il suo bilancio record. Quando diede l’allarme al resto dell’informazione, la Cassandra londinese dichiarava ricavi per 218 milioni di sterline con un utile netto di 22. Adesso, guadagna 38 milioni su 313 fatturati. L’alfiere della globalizzazione – lettura obbligata dell’iperclasse che trasvola sulle patrie – miete i suoi successi. Vende quasi 1,4 milioni di copie, il doppio di 10 anni fa, il quintuplo rispetto agli anni Ottanta.
Dell’autorevolezza della testata, fondata nel 1843 da James Wilson, un sostenitore del free trade, si sa tutto. Rupert Pennant-Rea, già direttore negli anni Ottanta, è stato vicegovernatore della Banca d’Inghilterra e ora presiede l’editrice. Negli anni Trenta, Luigi Einaudi, esule volontario dal Corriere espugnato dal fascismo, era il corrispondente dall’Italia. Si sa meno, invece, dell’azienda. The Economist Group riunisce, attorno alla storica ammiraglia, mensili specializzati, siti internet, l’Economist Intelligence Unit e il notiziario del Congresso Usa, Roll Call, cui si è aggiunto Capitol Advantage, comprato l’anno scorso per 21 milioni di sterline forniti senza battere ciglio dalle banche benché – circostanza insolita a occhi italiani – il gruppo abbia un patrimonio netto negativo e l’acquisita abbia solo avviamenti.
La verità è che, dopo oltre un secolo di bilanci contenuti, la società ha cominciato a fare tanti soldi. E a distribuire agli azionisti perfino un po’ di più di quanto guadagni. Negli ultimi 4 esercizi, ha pagato dividendi per 152 milioni avendo realizzato 126 milioni di profitti. Una scelta non rara nel Regno Unito: il London Stock Exchange si regola allo stesso modo. E resa possibile dal flusso di cassa abbondante. Ai soci interessa meno, evidentemente, il valore della società. In base al prezzo indicativo dell’azione a bilancio, il gruppo vale 500 milioni di sterline, ma la società non conferma perché non tutte le azioni sono uguali e The Economist Group non è quotato. Anzi, una struttura proprietaria curiosa.
Il capitale è infatti formato da 4 categorie di azioni: 100 azioni senza diritti patrimoniali ai trustees, 22,68 milioni di ordinarie pressoché senza diritti di voto (gli Agnelli ne hanno appena comprate 50 mila, parecchie sono destinate ai dipendenti), 1,26 milioni di azioni speciali A in mano a una novantina di soci tra i quali Lynn Forester de Rothschild con il 19%, e poi i Cadbury e gli Schroeders, e altrettante di classe B di proprietà del Financial Times, gruppo Pearson, che le ha acquistate nel 1928. I 4 trustees controllano i passaggi azionari e le nomine al vertice del giornale e della società. I soci A nominano 7 membri del board, tra cui il direttore John Micklethwait; il Financial Times gli altri 6 tra i quali figura l’amministratore delegato, Andrew Rashbass. Questa complessa architettura societaria risale al 1929 e ha lo scopo di proteggere il giornale da scalate ostili salvaguardandone la libertà di criticare Berlusconi e pure Gordon Brown, di porre domande epocali sul capitalismo e di dispiacere ai banchieri.
Certo, la quotazione in Borsa, specialmente se di una minoranza azionaria, non metterebbe a rischio questi valori immateriali. Lo dimostra la storia della Reuters. Ma solo gli «inglesi d’Italia» pensano che la Borsa sia un must.
La profezia di The Economist salvava l’editoria di qualità. E i risultati del profeta ne sono una conferma. Ma che cosa sia la qualità è materia felicemente ambigua. L’altro bilancio record dell’editoria europea lo firma, infatti, il popolare gruppo tedesco Axel Springer che pubblica la Bild Zeitung, 3,3 milioni di copie, il più diffuso quotidiano d’Europa, e poi l’acculturato Die Welt, che ha perso per decenni ed è arrivato al profitto operativo proprio adesso, i regionali di Amburgo e Berlino, più un’attività on line che già dà un sesto dei ricavi con un margine del 6,5%. Se The Economist Group può essere paragonato a una fregata, con i suoi 1.234 addetti, Springer è una corazzata con una capitalizzazione di Borsa di 2,2 miliardi, due volte i mezzi propri, 10.600 dipendenti, ricavi per 2,7 miliardi di euro, un utile di 571 milioni, che sarebbe stato record anche senza la vendita della partecipazione nella tv Prosiebensat.
Come l’inglese, anche il gruppo tedesco non è scalabile. Ma solo perché la maggioranza assoluta del capitale è in mano a Friede Springer, la vedova del fondatore. Qui, però, la successione al carismatico Axel è stata difficile: dal 1985 al 2002 il timone è passato più volte di mano. La stabilità è stata raggiunta solo 7 anni fa quando la signora Springer ha individuato nell’allora trentanovenne Mathias Doepfner, che aveva iniziato come giornalista, la guida operativa del gruppo e in Giuseppe Vita il presidente.
Diversamente dall’Economist, testata globale, Springer edita giornali legati al territorio che, sull’esempio della Bild, figliano periodici specializzati esasperando l’uso del marchio. In Europa orientale ha posizioni preminenti, anche se nel difficile 2008 non ne ha ricavato profitti. Springer dà dividendi alti, ma meno degli inglesi, ed è generoso con i manager. I suoi 4 top hanno ricevuto complessivamente 13,1 milioni nel 2008, 48 volte il costo pro capite dei dipendenti. L’Economist non dà notizie complete, ma sembra largheggi meno.
Il gruppo Springer è attento ai costi operativi. Annuncia nuovi tagli per 40 milioni dopo aver già fatto tre grandi ristrutturazioni: il trasferimento della sede da Amburgo a Berlino che comportò le dimissioni di circa il 15% dei dipendenti; la condivisione delle tipografie dei periodici con l’altro big tedesco, Bertelsmann; la riorganizzazione delle redazioni in un flusso continuo on line-carta-on line. Pari attenzione ai costi finanziari. Pur avendo tanto investito, il debito netto è pari a 335 milioni, assai meno del margine operativo. Ma il vero punto di forza sono le vendite e la dipendenza dalla pubblicità inferiore alla concorrenza: il 43% dei ricavi contro il 54% degli altri media tedeschi; e ancor più lo è la dipendenza dai piccoli annunci (18% dei ricavi pubblicitari) che invece procurano ancora oltre la metà del fatturato in Germania e Regno Unito. Detto tutto questo, è certo merito della Bild se il suo pubblico è più vasto di quello di ogni programma tv tedesco. Ma, forse, anche della lobby degli editori che è riuscita in Germania a contenere le risorse della tv commerciale così da avere un rivale meno potente e capace della tv italiana.