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 2009  luglio 14 Martedì calendario

L’UNIVERSITA’ DELLE IPOCRISIE


Da almeno 30 an­ni ogni tentativo di riformare l’università è fal­lito per la resistenza di inte­ressi potenti, non disposti a rinunciare ai propri privi­legi. Il governo Berlusconi segue una strategia diver­sa, che potrebbe essere il banco di prova per altre ri­forme.

La legge finanziaria del­lo scorso anno – con un provvedimento che preve­do verrà riproposto nel Do­cumento di programmazio­ne economica – ha ridot­to in modo drastico i fondi statali per il funzionamen­to delle università: meno 8% il prossimo anno, meno 17% nel 2011. A prezzi co­stanti i finanziamenti stata­li scenderanno del 20% in quattro anni. Sono stati an­che azzerati i fondi per l’edilizia universitaria. Poi­ché la quasi totalità dei fi­nanziamenti statali serve a pagare stipendi, con un ta­glio del 20% la maggior par­te delle università nei pros­simi due anni chiuderà. So­pravvivere indebitandosi (anche qualora lo Stato per­mettesse ai rettori di farlo e le banche concedessero i mutui) è una via preclusa ai più: a Siena le rate di am­mortamento sui debiti con­tratti rappresentano già quasi il 20% delle spese non vincolate, a Firenze sia­mo intorno al 15%.

Mi sarei aspettato che il governo, dopo essere stato inflessibile sui tagli, annun­ciasse una riforma profon­da dell’università ponendo gli oppositori (rettori, sin­dacati, baroni vari) di fron­te a una scelta: accettate o vi assumete la responsabili­tà della chiusura delle uni­versità. Il ministro Gelmini da mesi ha nel cassetto una riforma ambiziosa e contrastata (ad esempio i rettori si oppongono alla proposta di vedersi sottrat­ta la presidenza dei cda de­gli atenei e non vogliono veder modificato il mecca­nismo con cui sono eletti), ma non l’ha mai presenta­ta. Perché?

A mio parere perché esi­stono due visioni molto di­verse all’interno del gover­no: sull’università così co­me su altre riforme. Il mini­stro Gelmini – e i ministri «di spesa», dall’ambiente all’agricoltura – è dispo­sto a dar battaglia sulle re­gole, ma chiede che, a fron­te di nuove regole, tornino le risorse, o almeno un po’ di risorse. Dall’altra parte il ministro dell’economia – memore dell’insegnamen­to del presidente Reagan: «Affama la bestia, vedrai che diventerà mansueta» – non è disposto a rinun­ciare ai suoi tagli.

Come ho scritto più vol­te, io penso che vi sia un so­lo modo per conciliare que­ste due posizioni: alzare le rette universitarie. Oggi es­se sono (in media) inferio­ri ai mille euro l’anno, men­tre ogni studente costa ai contribuenti circa 7.000 eu­ro l’anno (quasi 12.000 se non si contassero i fuori corso). Rette più elevate do­vrebbero essere accompa­gnate da borse di studio ta­li da garantire a chiunque lo meriti la possibilità di ac­cedere all’università. Antici­po l’ovvia obiezione: in un Paese di feudi molte uni­versità non userebbero cer­to il merito come criterio di selezione. Ma esistono altre strade?

La mediazione fra i mini­stri è compito di Berlusco­ni: è disposto a spiegare agli italiani che l’università di fatto gratuita non solo non ce la possiamo più per­mettere, ma è anche un si­stema iniquo perché trasfe­risce reddito dai poveri ai ricchi? (Gli operai rappre­sentano il 30% degli italia­ni, ma solo il 20% dei loro figli accede all’università). Oppure a novembre, quan­do studenti e rettori saran­no insieme sulle barricate, farà ciò che hanno fatto i democristiani per 50 anni: nessuna riforma e qualche soldo in più per spegnere l’incendio?