Domenico Quirico, La stampa 12/7/2009, 12 luglio 2009
GHANA, DEMOCRAZIA SOLITARIA
Obama non si è sbagliato a scegliere Accra. Perché è davvero qui che si è metamorfizzato il «yes we can» africano. In un Paese che non è migliore o peggiore dei suoi vicini è accaduto l’impossibile, ovvero due trasferimenti pacifici del potere. L’oppositore, un professore di diritto sessantenne che vince le elezioni contro il candidato del Potere dotato di mezzi assai superiori, che riconosce la sconfitta e si complimenta con l’avversario; e soprattutto non grida ai brogli e non fa ricorso alla piazza scalmanata e armata. Non solo: due presidenti che al termine dei mandati previsti dalla Costituzione si ritirano senza brigare modifiche legislative che ne eternizzino la carica. Ad Accra, allora: dove si dimostra che questo non è solo il continente delle violenze elettorali (500 morti in Togo nel 2005, 1500 in Kenya lo scorso anno), del dispotismo suicida (Zimbabwe), delle guerre civili (Costa d’Avorio), dei colpi di stato militari (dalla Mauritania alla Guinea), delle successioni «dinastiche» (Congo).
Sì, qui davvero abbiamo scavalcato il tradizionale dilemma tra sviluppo e democrazia, il buon governo è una premessa della crescita economica e non un risultato. La cinica constatazione che il presidente francese Chirac fece vent’anni fa («il multipartitismo è un lusso che i Paesi in via di sviluppo non hanno i mezzi per offrirsi») è stata smentita da un sei per cento di crescita l’anno, ormai stabile dal 2001. I conflitti tribali esistono ma sono inquadrati e disinnescati da un dibattito democratico libero e ben strutturato. Ma se Jean-François Bayart può dire che «l’Africa politica non è più la stessa», deve appendere il suo ottimismo al Ghana e a un gruppetto di altri Paesi che basta una mano per contare.
Ma perché solo qui? Perché il risveglio dell’Africa sognato, desiderato, intravisto non è diventato modello, imitazione, virtuosa epidemia? Perché il simbolo del continente ahimè, anche nell’epoca del satellitare e non più del tam tam, non è il ghanese Rawlings, padre della patria che disciplinatamente si ritira in pensione dopo un rovescio elettorale, ma il generale-presidente centrafricano André Kolingba? Che convocando i suoi concittadini alle urne, in un messaggio radiofonico, spiegò con disarmante sincerità: «Quelli che ci danno i soldi ci hanno chiesto di fare della democrazia». Fu sconfitto, è vero, ma non c’è davvero consolazione democratica se siamo costretti a constatare che il suo vittorioso avversario Feliz Patassé (ancora al potere) fu cresimato dalla miracolistica promessa: «Ogni villaggio avrà la sua fabbrica di biglietti di banca». Perché anche nei Paesi dove la rendita del petrolio e delle materie prime consente di aggirare la peggiore delle malattie africane, la povertà estrema, la democrazia funziona soltanto nella sua versione locale, come procedura e non come cultura? La risposta sembra semplice: 750 milioni di africani per cui la vita quotidiana continua a essere lotta per la sopravvivenza non possono credere nella democrazia finché non ne vedranno i benefici.
Loro, gli africani, poveri e antropologicamente infelici, lo sanno e non si fanno ingannare. Ma l’Occidente? Ai tempi di Menghistu, di Mobutu, di Amin si faceva finta di non vedere; oggi la nuova moda è accontentarsi con bonarietà grossolana. Perché, secondo i parametri delle cancellerie occidentali, la maggior parte dei Paesi africani sono «tecnicamente» democrazie. Nel senso che non c’è il partito unico e si vota. Ma è sufficiente? E i brogli che gli osservatori internazionali non riescono mai a intravedere? E l’assenza di una magistratura indipendente e di una divisione dei poteri? E la gestione patrimoniale dello Stato e delle sue ricchezze? E la versione etnica dello «spoil system», che consiste nell’annientare fisicamente i rivali sconfitti? Ormai la maggior parte dei despoti africani non ha neppure bisogno di riempire le prigioni. Sa disinvoltamente usare la democrazia: non una cultura legata a una storia, a delle condizioni, ma un comodo kit istituzionale. La vera svolta di Obama, quella che convincerà gli africani che il mondo è cambiato, avverrà non con la visita all’eccezione Accra, ma quando si rifiuterà di stringere la mano a tanti altri presidenti, da Kabila a Museweni.