Roberto Capezzuoli, Il sole 24 ore 12/7/2009, 12 luglio 2009
ALLUMINIO MALATO DI ECCESSO DI SCORTE
Si producono 25 milioni di tonnellate ma i magazzini sono pieni - Le speranze dal packaging - IL SETTORE - Resta l’unica «palla al piede» dell’indice dei metalli scambiati a Londra, salito del 33,5% tra la fine del 2008 e venerdì 10 luglio
Per Alain Belda, che riuniva le cariche di presidente e amministratore delegato di Alcoa, il 13 luglio del 2007 fu una delle giornate più amare. Il suo tentativo di espandere il numero uno dell’alluminio americano annettendo la canadese Alcan era appena fallito: la sua offerta di 27,7 miliardi di dollari era stata surclassata dai 38,1 miliardi – in realtà 44, se si considerano i debiti di Alcan – messi sul piatto dal gruppo anglo-australiano Rio Tinto.
La sconfitta bruciante era stata preceduta da caustici commenti, come quello che gli era giunto per lettera da uno dei suoi grandi azionisti, il fondo Jana Partners: «Alcoa ha una lunga storia di fallimenti nel tentativo di creare valore per gli azionisti attraverso acquisizioni». Il fallito takeover diede ragione al fondo Jana e fece volare il titolo Alcoa, che a Wall Street si spinse fino al record ventennale di 47,35 $, nell’idea che il gruppo di Belda, da cacciatore, sarebbe potuto diventare preda.
I colpi della recessione
Oggi Alcoa al Nyse staziona sotto quota 10 dollari e il bilancio degli ultimi tre trimestri si è chiuso in rosso, ma gli azionisti possono sfregarsi le mani per la mancata acquisizione. La fusione di una strapagata Alcan con Rio Tinto aveva creato due anni fa un colosso da 4,3 milioni di tonnellate di alluminio, tanto da surclassare Alcoa e superare di un’incollatura RusAl, astro nascente dell’oligarca Oleg Deripaska.
Però la lunga crisi strisciante, esplosa infine nel settembre scorso dopo il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, ha messo allo scoperto l’eccessiva esposizione finanziaria sia di Rio Tinto, sia di RusAl. Deripaska, sempre più ambizioso e dilagante verso i settori dell’auto, del nickel e delle costruzioni, ha dovuto elemosinare aiuto al Cremlino. Tom Albanese, chief executive di Rio Tinto, si è visto punire il disinvolto ottimismo con cui aveva inghiottito un boccone costoso, Alcan, senza curarsi molto dei debiti contratti con le banche finanziatrici.
Il gruppo Rio Tinto, molto forte anche nei settori del ferro, del rame e del carbone, è oggi avviato a recuperare la perduta tranquillità, ma solo a costo di sacrifici e di tensioni. A essere immolate sono proprio alcune delle attività di Alcan, in particolare il packaging, mentre le tensioni, sempre più aspre, sono con gli acquirenti cinesi di minerale di ferro (che vogliono sconti superiori a quelli concessi ad altre acciaierie) e sono soprattutto con Chinalco, la holding cinese dell’alluminio. Questa aveva acquistato il 9% di Rio Tinto per aiutarla a non cadere preda dell’altro colosso anglo-australiano, la Bhp Billiton, ma si è poi vista sbarrare la strada quando ha cercato di raddoppiare (anche a caro prezzo) il proprio pacchetto fino al 18%.
Un metallo al palo
L’eccesso di fiducia nelle sorti dell’alluminio ha contribuito a decapitare le attese di molte aziende del settore. La crisi economica e finanziaria ha avuto la sua parte, senza dubbio, ma ha solo amplificato gli effetti di una situazione già compromessa. La dimostrazione, a posteriori, è nello sviluppo mostrato dai mercati in questa prima metà del 2009. Le quotazioni di quasi tutte le commodities sono sprofondate tra novembre e gennaio, ma da marzo in poi sono apparsi evidenti i segnali di recupero. I motivi, in ordine sparso, sono la debolezza del biglietto verde, che sostiene le quotazioni espresse in dollari; la politica di tagli produttivi, che ha eliminato una buona fetta dell’offerta; il ritorno degli acquisti da parte degli hedge fund e dei fondi indicizzati, che puntano sulle materie prime perché possono proteggere da un futuro ritorno di spinte inflazionistiche; i piani di stimolo dell’economia, che hanno dato ossigeno alle imprese; infine, last but not least, la continua corsa della locomotiva cinese.
Tutto ciò ha fatto recuperare in sei mesi solo l’1,7% all’indice Reuters Jefferies Crb, che è ponderato sull’andamento di 19 futures americani, compresi quelli del settore energy. Ma l’indice dei metalli non ferrosi scambiati a Londra è salito del 33,5% tra la fine del 2008 e venerdì 10 luglio. Unica palla al piede, proprio l’alluminio. Il forte volume delle giacenze nei magazzini del London Metal Exchange, unito a un eccesso produttivo globale ancora lontano dall’esaurirsi, ha allontanato gli investitori. Il volume d’affari di futures e options trattati sulla borsa metalli londinese è salito in sei mesi dell’1,8% rispetto a un anno prima, ma nel caso dell’alluminio, che è il numero uno dei non ferrosi, il fatturato è sceso del 2,8%, a poco più di 25 milioni di lotti da 25 tonnellate ciascuno.
Consumi in frenata
Un po’ di cautela da parte di operatori e investitori era da mettere in conto. L’alluminio, di cui si producono ogni anno nel mondo più di 25 milioni di tonnellate, trova le sue applicazioni più consistenti nell’automotive, nelle costruzioni e nel packaging. Oggi le uniche sicurezze paiono venire proprio dall’ultimo settore, quello dell’imballaggio di prodotti alimentari.
Pechino resiste
La Cina, che ha ridimensionato il ritmo delle proprie fonderie (complessivamente le più importanti del mondo), non pesa affatto sul bilancio mondiale. Anzi, grazie ai consumi sempre crescenti e a una onerosa politica di stoccaggi, nel primo semestre 2009 ha importato, in base ai dati doganali, 1,39 milioni di tonnellate di alluminio, quasi tre volte l’import dei primi sei mesi 2008, mentre le esportazioni sono scese da 430mila a 75mila tonnellate. Quanto possa durare la fame di Pechino resta però un’incognita.
La cautela domina le stime
Il polso del mercato resta così in balìa di ogni indicatore economico. I più recenti, quelli dei prezzi delle case negli Stati Uniti e quelli delle vendite di auto giapponesi, non sono confortanti. Una sensazione che è facile avvertire anche nelle previsioni degli analisti più autorevoli e che rischia di contagiare anche il 2010: l’anno prossimo, secondo l’Economist Intelligence Unit, i prodotti di base per l’industria rincareranno complessivamente del 6,5% e i metalli tireranno la volata con un +11%, ma subiranno il freno dell’alluminio, per il quale è pronosticato un calo dell’1,1 per cento. Anche Ubs, Jp Morgan e Deutsche Bank hanno pubblicato considerazioni molto simili nei loro report. La stessa percezione, d’altra parte, viene spontanea se si torna a esaminare la situazione di Alcoa: il suo ultimo trimestre si è chiuso con una perdita netta di 454 milioni di dollari. Era meno del previsto e ha fatto risalire tutta Wall Street. Ma se la luce in fondo al tunnel viene da tre trimestri consecutivi in rosso, forse la via d’uscita è ancora lunga e accidentata.