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 2009  luglio 12 Domenica calendario

Il nuovo Codino che ha stuprato la Capitale L’una passata di una notte di maggio, una telecamera fissa in un garage dell’Ardeatino, Roma sud, registra con il solito colore grigio e senza audio il passaggio lento e sicuro di un’utilitaria nel garage condominiale

Il nuovo Codino che ha stuprato la Capitale L’una passata di una notte di maggio, una telecamera fissa in un garage dell’Ardeatino, Roma sud, registra con il solito colore grigio e senza audio il passaggio lento e sicuro di un’utilitaria nel garage condominiale. Dal nulla sbuca una sagoma dal passo affrettato che si incappuccia dirigendosi verso l’auto appena parcheggiata tra i piloni sotterranei. Una portiera aperta, la reazione del conducente, e l’uomo si dà alla fuga. Per la Polizia non ci sono dubbi, l’uomo incappucciato è lo stupratore seriale che finalmente ha un volto e una identità precisa, quella di Luca Bianchini, 33 anni. I reati contestati dal Pm sono violenza sessuale, sequestro di persona e porto d’armi da taglio. Oltre al video, lo incastrano le prove del Dna (fino a prova contraria). Apparentemente il profilo del presunto violentatore che ha aggredito tre donne, tra aprile, giugno e luglio (due all’Ardeatino, una alla Bufalotta), è quello degli insospettabili. Una casa da single a Cinecittà, un lavoro normale, impiegato presso una ditta delle pulizie, impegnato politicamente a tempo pieno come coordinatore della sede Pd del Torrino, e fidanzato. Una vita pubblica normale, ma era stato già arrestato nel 1996. Come ricorda Francesco Caroleo Grimaldi, l’avvocato della vicina di casa aggredita all’epoca: «Se nel ’96 si fosse prestata maggiore attenzione al caso di Bianchini, adesso non staremmo qui a parlare delle decine di donne vittime di brutali aggressioni a sfondo sessuale». Bianchini però non fu condannato perché in udienza preliminare una perizia stabilì che non era capace di intendere e di volere al momento del fatto. «Si disse che un ragazzo normale e sano di mente può aggredire una donna solo perché in preda ad un raptus. La mia assistita accolse quella decisione con disperazione perché avrebbe dovuto convivere ancora un po’ nello stesso stabile dell’aggressore e perché a quella scena di violenza assistette suo figlio che all’epoca aveva 10 anni». Una normalità che oltre a nascondere un precedente del genere, ha celato per anni altre violenze commesse: sembrerebbero addirittura 12 tentate e 3 consumate, da quando abitava nel 1996 a Tor Carbone. «E chissà quante ne verranno fuori. Pensiamo soltanto a quei casi di violenza che non sono stati ancora raccolti, o denunciati», commenta Massimo Lugli, cronista di nera di Repubblica, finalista al Premio Strega con L’istinto del Lupo (Newton Compton), grande conoscitore delle ossessioni della capitale. Che idea si è fatto Lugli in questi giorni, del profilo dello stupratore? L’idea di una personalità profondamente malata, molto di più degli altri. Perché da una parte abbiamo dei dettagli irriferibili sulla sfera sessuale, che indicano un modus operandi che è spaventosamente morboso. E dall’altra una meticolosa paranoide organizzazione degli agguati. Di solito la violenza è occasionale, approfittano di un posto isolato, palpeggiano, e poi magari c’è la rapina per il feticcio da tenere con sé, più un gioiello che qualcosa di intimo. Qui la differenza è stata nella sua abilità notevole di pianificare, senza lasciare impronte, usando i guanti, e un’arma. Anche per il veicolo, quasi sempre la traccia che rimane agli inquirenti è il veicolo, è la tua fuga, qui invece ha cercato di nasconderla. Un livello di morbosità maggiore rispetto a chi? Rispetto ai precedenti. Mi ricordo Joe Codino, Montesacro anni 80. Un altro a Monteverde, uno di San Giovanni che si vestiva da donna, un camuffamento dal significato ovvio, come una trappola per indurre le donne a fidarsi, le prendeva in macchina e consumava un rapporto completo, oppure un ex carabiniere arrestato e poi scagionato: tutti quanti nel decennio tra il 1985 e il 1995. Quel Joe Codino a cui fa riferimento Lugli si chiama Sergio Marcello Gregorat, ed è lo storico precedente del nuovo stupratore seriale. Liutaio figlio di liutai, quando venne arrestato a soli 26 anni, Gregorat confessò di aver violentato tredici donne al Nomentano. L’incubo di Roma fu poi condannato a cinque anni di reclusione. «Ma lo riarrestarono e condannarono per gli ultimi casi di violenza, per poi essere assolto, con un processo vergognoso perché era palesemente innocente». Come è possibile attribuire diversi stupri alla stessa persona? Intanto c’è il test del Dna per le violenze consumate. Poi ci sono i marker di serialità e di firma: i primi possono cambiare, la firma è inequivocabile, è qualcosa di non finalizzato al reato. Come uno schiaffo al cassiere durante una rapina. Qui sono l’approccio, il passamontagna, il coltello. La normalità è un’ottima via di fuga? Uno così può agire per mesi. Può eclissarsi, può cambiare città. Il profilo è trasversale. Quello di San Giovanni non si è mai fatto prendere. Quando non c’è una territorialità marcata, se si trasferisce a Napoli e cambia modus operandi, è difficile risalire ai precedenti. La firma certo resta. Ma se mette le fascette di plastica anziché lo scotch, come lo rintracci? Da cosa si comincia? Dalle telecamere sparse in tutta la città e dai testimoni e poi le celle telefoniche che indicano i cellulari agganciati a una certa ora in quella precisa zona. Allo stesso tempo si fruga nel database dei sospettati che però è infinito. Ovvio che se fai una cosa del genere sopra i trent’anni non è la prima volta. Certi buzzi hanno dei precedenti. Lui ha mostrato un modus da chi è stato in carcere. Mentre di solito vanno a viso aperto, perché sentono di recitare un rapporto da amanti. Smaliziato, non ha lasciato impronte, lo sperma sì però, perché si considerava al di fuori di certi elenchi. Non ha usato precauzioni, forse per questioni di tempo. Di qui il terrore delle vittime di essere sieropositive. Per pudore non si dice, ma la Polizia fa immediatamente i test dell’Hiv. Prima viene somministrato un farmaco, una bomba, per cercare di ridurre l’infezione, poi il test Hiv. Lo si fa subito perché allora cambierebbe l’accusa in tentato omicidio. Poi magari dentro è stato violento, quindi altro rischio. Di solito il stupratore si masturba, ma nessuno reagisce con un coltello alla bocca. La penetrazione è difficile. Con la fuga di notizie e la denuncia pubblica del caso, non si rischia mai l’emulazione anche per fini personali? L’emulazione può scattare nei crimini collettivi tipo i piromani. Per stuprare ci vuole una personalità particolare forte, non è il branco che si sostiene a vicenda. Lo stupro ha una valenza emotiva fortissima. Lo stupratore è spaventato, emozionato, ha delle paure sessuali, ha i suoi fantasmi, come possono essere gli stupri di guerra, come la ex fidanzata. Qui c’è la pianificazione. Poi se diventa un fatto mediatico, il serial ci gode. La notizia del primo stupro non è stata comunicata subito. Il primo giornalista che accede alla notizia è dell’Unità ma tre giorni dopo. Nascondere un fatto storico è inqualificabile, non si tratta di un’indagine, appartiene a tutti, la gente ha il diritto di sapere. Potevamo prendere le precauzioni. Non si sono coordinati, e pur non dicendo nulla, sono uscite tutte le informazioni. Non ho scritto l’indirizzo dell’ultima ragazza, ma qualcuno l’ha fatto. In altri casi con i capi della Squadra mobile, pur tra terrorismo, sequestri, e banditi, ci si vedeva e si parlava. In questi casi una segnalazione può venire anche dalla microcriminalità? Sicuramente danno fastidio perché c’è una pressione poliziesca, ma qui no, non stiamo nei luoghi dello spaccio. La delinquenza odia gli stupratori, finiscono tutti violentati in carcere, li considerano infami come i pedofili, anche perché i carcerati hanno donne a casa che escono da sole. Questo reato coinvolge tutti. Bianchini o chi per lui ridisegna un pericolo diverso da Joe Codino, oppure non è cambiato nulla? Non c’è nessuna attualità nel personaggio. La città è più sicura di anni fa, 30 omicidi l’anno, e parlo di omicidio volontario. E se quindi la città è più sicura, più fa notizia il crimine. C’è un fatto politico, non si può rapportare la cronaca con la politica. Se si tratta di controllare la piccola criminalità, allora è una faccenda politica, amministrativa. Ma come fai a impedire che una figlia pugnali un padre? Qui si entra nella psiche di una persona. Le ronde sono una brutta parola. Forse vigilanza è più giusta. Non uno con la mazza da baseball, ma se c’è qualcuno di civile a vigilare non vedo niente di male. La vigilanza tra i vicini funziona. In una città come enorme come Roma, è impossibile avere l’intervento in pochi secondi. I preparatissimi ispettori de "Il silenzio degli innocenti", di "Manhunter", di "Dexter" e "Csi", sono solo fantasie o figure reali anche da noi? Abbiamo anche noi queste figure. Alla direzione centrale anticrimine hanno degli studi sugli omicidi seriali. Hanno un know how, che si trasferisce a pioggia alle squadre mobili. I Protocolli di rilevamento delle indagini sono ormai patrimonio acquisito, come i criminologi esperti. Purtroppo oggi una fiction rivela molte informazioni. Il Dna, i cellulari, le impronte, un capello, balistica, tutto rivelato. Chiunque oggi mette la reticella mentre spara».