Marcello Sorgi, La Stampa 13/7/2009, 13 luglio 2009
ADESSO INVENTO IL FUTURO DEI LIBRI"
Dopo una vita nell’editoria e vent’anni alla Mondadori, Gian Arturo Ferrari lascia la guida dei libri della casa di Segrate.
Professor Ferrari, di notizie così, nel vostro campo, non ne capitano tutti i giorni. Che è successo?
«Dopo tanti anni, un cambio è naturale. Lascio la guida operativa della divisione libri, ma non Segrate, né l’editoria. La Mondadori è stata la mia casa, il luogo di strettissime relazioni sia professionali sia personali innanzi tutto con l’amministratore delegato Maurizio Costa. Diciamo che se finora mi sono occupato del passato e del presente dei libri, ora andrò ad interessarmi del futuro».
In che senso, prof.?
«Siamo ormai alla vigilia di una rivoluzione tecnologica paragonabile, per entità, al passaggio dai libri manoscritti a quelli stampati, avvenuto cinquecento anni fa. Già allora, i libri esistevano da duemilacinquecento anni, ma erano considerati un bene prezioso e venivano confezionati su richiesta di committenti facoltosi. Con l’avvento della stampa il prezzo dei volumi scese e i libri diventarono un bene di consumo».
E adesso?
«Dobbiamo prepararci alla fine dei libri stampati e all’avvento degli e-book, i testi trasmessi su un lettore elettronico. In America, l’e-book sta già occupando una fetta interessante del mercato. In Europa deve ancora affermarsi. Ci saranno vantaggi e rischi, prezzi più bassi e pericoli di pirataggio, come per la musica su Internet. Occorrerà pensare agli uni e agli altri».
E a lei, uomo di editoria tradizionale, fatta di autori, testi, formati e copertine, interessa questo nuovo mestiere?
«Certamente, è il futuro. Ed è qualcosa con cui fare i conti».
E quel vecchio mondo, che a sentir lei sta per tramontare, non le dice più niente?
«Intanto, non credo che quel vecchio mondo sparirà. Ci saranno sempre gli autori e gli editori, e posso assicurarle che i libri non li scriveranno i robot. Poi, lascio in un momento favorevole, le nostre case editrici stanno bene, Mondadori, nel suo complesso, fa 450 milioni di euro l’anno di fatturato. E’ la prima casa editrice italiana».
Quando ha capito che i tempi erano maturi per cambiare?
«Vede, nella storia recente dell’editoria italiana, io sento di appartenere alla seconda generazione. La prima, nel secolo scorso, è stata quella dei fondatori, che hanno costruito l’identità dei marchi: Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, Bompiani, Boringhieri, che è stato il mio maestro. Poi siamo venuti noi monaci dell’editoria, nati e cresciuti sui libri e diventati manager quando gli editori hanno cominciato davvero a misurarsi con le regole del mercato. Dopo di noi, tocca a manager puri, formati in mestieri diversi e poi venuti a imprimere un’accelerazione a queste imprese particolari che sono le case editrici. Come i miei attuali collaboratori e futuri successori, Antonio Baravalle, che viene da Fiat e Alfa, e Riccardo Cavallero, arrivato da Merger and Acquisitions e amministratore delegato Random House Mondadori in Spagna».
Che ricordi ha dei fondatori dell’editoria italiana?
«Ho fatto in tempo a conoscerli quasi tutti, a stimarli, ma non a rimpiangerli. Arnoldo Mondadori aveva una sua prosopopea dannunziana e l’obiettivo di creare una grande editrice. C’è riuscito. Angelo Rizzoli era un insuperabile talent-scout di gusto popolare. Don Camillo lo fece lui, mettendo insieme i pezzetti di Guareschi su Candido. E fu lui a scoprire Fantozzi sull’Europeo e a convincere Villaggio, che s’era inventato il personaggio sull’Europeo, a interpretarlo al cinema, dopo i rifiuti di Tognazzi e Manfredi. Giulio Einaudi, al di là del mito, aveva una visione pedagogica del suo mestiere, una sorta di compendio del dover essere degli italiani. Giangiacomo Feltrinelli era iperattivo, il più padronale di tutti ma anche il più abile a mettere insieme una squadra: Spagnol, Riva, Filippini, Bassani sono stati di sicuro quelli che hanno fatto più scuola. Paolo Boringhieri era un po’ nevrotico, aveva uno strano tic, si aggirava per i corridoi meditando e facendo schioccare la lingua sul palato come una volta facevano gli osti».
E stranezze degli autori, ne ricorda?
«Quando, ancora studente, andai a trovare Montale insieme con altri ragazzi con cui facevamo il giornalino del liceo Berchet, ci scappò una domanda che fece irritare il maestro. Eravamo tutti lettori del Giorno, che in quel momento era il giornale più moderno e aperto, e il Corriere, a noi giovani, sembrava troppo conservatore. Domandammo a Montale: come fa a scriverci, lei che è il maggior poeta italiano? Il maestro se la prese, s’alzò, infilò la porta e, voltandosi all’indietro, disse solo: ”Ne riparleremo tra qualche anno”».
E più di recente?
«M’è rimasto impresso il primo incontro con Salman Rushdie, a fine Anni Ottanta e a cinque giorni dalla proclamazione della fatwa contro di lui. Gli islamici fondamentalisti erano già per strada, davano fuoco alle librerie che vendevano i suoi Versi satanici, lui rischiava la vita, lo sapeva bene, eppure, a Londra, dove lo vidi, era tutto allegro, come divertito dal casino che aveva provocato. Poi, mi ricordo di John Le Carré, era come un attore, e si divertiva, lui che era stato agente del controspionaggio di Sua Maestà britannica, a farmi le imitazioni degli agenti segreti russi e indiani che parlavano nel loro inglese maccaronico».
Se dovesse dire alla fine qual è l’essenza del lavoro di un editore?
«A differenza degli autori, per i quali il libro è come un pezzo del loro corpo, una mano, un piede, un occhio, un orecchio, per l’editore è qualcosa che non c’è finché non è stampato. E’ un tartufo da cercare, una pepita da estrarre, e naturalmente, un’intuizione da trovare. La scommessa è tutta sul talento. Per Gomorra di Saviano, la tiratura iniziale era di 4500 copie, mentre ne ha vendute due milioni e 300 mila. Questo è il margine d’errore. Un libro che non sono riuscito a pubblicare, perché ce l’ha soffiato Adelphi, è Vita e destino di Vassili Grossman. In compenso, ci sono tanti e tanti libri che sono felice di aver pubblicato».
E qualcuno, che, dopo aver scartato, le ha dato dei problemi. Come il libro di Belpoliti sul corpo di Berlusconi, rifiutato da Einaudi, o l’ultimo di Saramago, in cui il premier è trattato come un delinquente. Il suo concorrente Stefano Mauri, che li ha pubblicati, l’accusa di averli censurati.
«Con Berlusconi ho lavorato, nei pochi mesi in cui si occupò della Mondadori, e posso assicurarle di non aver mai subito pressioni. Mi ricordo solo una volta che si seccò per il libro di Marco Borsa Capitani di sventura. Era preoccupato perché conteneva un giudizio molto duro su Cesare Romiti, ma me lo disse solo dopo che il libro era uscito il libreria. Quanto a Mauri, fa molta polemica, chiama ”indipendenti” quelli che dipendono da lui e considera ”liberi” solo quelli che obbediscono a lui. In Italia la libertà di stampa non è affatto minacciata: ma per questo, appunto, un editore dev’essere libero di pubblicare o rifiutare ciò che vuole».