Domenico Quirico, La stampa 13/7/2009, 13 luglio 2009
MOGADISCIO, BATTAGLIA INFINITA
I miliziani islamici assediano il palazzo presidenziale. In Somalia è tornata la Sharia
E’ una battaglia, quella per Mogadiscio, tra le macerie di una città: oscura, contorta, spietata, sanguinosa. L’artiglieria negli anni ha scoronato muraglie, demolito, disperso, forato, annientato; si ha l’impressione che dopo la fuga degli abitanti vi sia stato un tentativo di fuga delle cose.
Non c’è un fronte, arduo decifrare chi avanza e chi è costretto a ripiegare. I proclami di vittoria come quello di ieri del governo durano poche ore. Poi tutto si capovolge. un genere di guerra che i somali combattono ormai da venti anni, l’hanno organizzata e costruita, le armi le tattiche la propaganda, a misura della loro tragedia. Dopo tanti anni qualcosa si è rotto, si è verificata una sorta di frattura originaria tra causa ed effetto. Ma che ha avuto l’effetto di prolungare la strage: 16 mila morti solo dal 2006, 21 vittime (fra cui 18 civili) nella sola giornata di ieri, un milione di profughi.
A Mogadiscio ci si batte, selvaggiamente, per obbiettivi che sembrano sproporzionati, inutili. Ad esempio, nel quartiere di Yaqchid, uno scalcinato posto di polizia, passato di mano più volte, difeso ed espugnato quasi all’arma bianca, fin a quando gli islamisti hanno definitivamente cacciato gli avversari. Sono battaglie slabbrate, cadono colpi di mortaio a casaccio tra gli edifici, tra le rovine sbucano rombando «le tecnike», camioncini epilettici trasformati in micidiale artiglieria mobile: esplodono raffiche con i cannoncini antiaerei e poi scompaiono. Aprono la strada ai miliziani, che si insinuano tra le macerie, avanzano sparando senza economia con i kalashnikov. Le fanterie di Allah e quelle governative si assomigliano, le stesse tute colorate, giovani, spesso adolescenti, sottili come giunchi, la bocca verde per il khat, la droga che masticano sempre per darsi coraggio.
Il terzo millennio fa capolino, incongruo, in un conflitto preistorico. Per inventare la nuova Africa bisognerà passare di qui, nel suo cuore di tenebra. E non sarà facile, perché gli africani non potranno fare da soli. I governativi, le milizie del presidente Sharif Ahmed, sono barricati in un fortilizio ritagliato sui quartieri Nord, attorno a villa Somalia, la vecchia residenza dei governatori italiani, poi palazzo del dittatore Barre. Attorno, grandi edifici vuoti, violati dai colpi di mortaio, e piccole costruzioni con le finestre murate dove i funzionari di questo governo moribondo si sforzano di lavorare per dare una impressione di normalità. C’è, nonostante i proclami di controffensive vittoriose, aria di marcio, di si salvi chi può, l’odore dei regimi in agonia. Sabato le milizie di al-Shabaab, i talebani del Corno d’Africa, e i loro alleati Hezb al’islamiya e Hizbul islam, hanno lanciato quella che potrebbe essere la battaglia finale. Controllano tutto il Sud e il centro del Paese; lì la sharia funziona già. Uno stupratore è stato lapidato, ai ladri si taglia la mano. l’ordine islamico: spietato ma che tenta i somali, anche quelli non fanatici, perché appare meglio del caos, della corruzione, delle ruberie degli altri. A separarli dal restaurare la prima «umma» d’Africa, la terra dove vige integrale la legge di Dio, che avevano costruito e retto per sei mesi nel 2006 prima di essere cacciati dall’invasione etiopica, restano solo tre quartieri a Nord della capitale, il porto e l’aeroporto.
Sabato gli islamisti sono arrivati a un chilometro dal palazzo presidenziale, per contenerli hanno dovuto intervenire per la prima volta i blindati del contingente dell’Unione africana, 4.300 tra ugandesi e burundesi schierati attorno ai punti chiave. E soprattutto le milizie «afgal», guidate dai loro signori della guerra. Il conflitto somalo è a più strati: se gratti sotto lo scontro religioso, affiora la politica e poi, ancora più sotto, un altro strato duro, mai scalfito, quello dei clan, delle tribù, delle kabile. la maglia di ferro con cui è intessuta la società somala. Gli «afgal» sono il clan dei quartieri Nord, non vogliono cadere sotto la mano ruvida ed egualizzatrice del potere islamico. Con il debole presidente si possono fare intese e affari; sanno che, con i talebani, le kabile sarebbero a poco a poco ma inesorabilmente schiacciate e scomposte. Ecco perché hanno deciso di scendere in campo (per ora) con Sharif. Ma neppure i quartieri ancora sotto controllo governativo, Abdiasis, Manbolyo, sono sicuri. Gli islamisti sono già lì, le loro squadre della morte eliminano soldati e poliziotti, seminano il terrore con le autobombe. Ora gli ordigni, riempiti di micidiali frammenti di ferro, sono fatti brillare con i telefonini. Una tecnica arrivata dall’Iraq e dall’Afghanistan. Con gli «stranieri» che dirigono l’avanzata degli islamismi locali. Il governo ha annunciato di aver ammazzato uno di loro ieri, «il comandante» addirittura, ha affermato il portavoce Farhan Mohamed Abasanyo, mostrando un cadavere ma senza fornire prove.
Il cuore della battaglia è una strada, una grande arteria desolata che si chiama Maka al Mukarama; collega villa Somalia all’aeroporto. I governativi e i soldati dell’Unione africana hanno l’ordine di tenerla sgombra a tutti i costi. Perché è l’unica via da cui sarà possibile fuggire.