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 2009  luglio 13 Lunedì calendario

LA CENTRALE (FALLITA) DI MONTALTO E’ COSTATA 250 EURO A OGNI ITALIANO


Spesi 7.000 miliardi di lire. E il nuovo impianto lavora 3.000 ore sulle 8.600 previste

ROMA – Sprezzanti del ridicolo l’hanno pomposamente battezzata: «Centrale Alessandro Volta». Pensa­te! Dare il nome dell’inventore del­la pila, praticamente il padre del­­l’elettricità, a una centrale che sta quasi sempre spenta. Insomma, una specie di pila esausta.

Benvenuti a Montalto di Castro: monumento gigantesco al fallimen­to della politica energetica italiana costruita sulle ceneri del nucleare, inutilmente costato almeno 250 eu­ro a ogni italiano, lattanti e ve­gliardi compresi. E come sempre acca­de in Italia le re­sponsabilità di un simile disastro si dissolvono in una nebbia impalpabile, dove tutti sono un po’ colpevoli, quindi nessuno lo è. I politici della prima Repubbli­ca, quelli della secon­da, l’Enel, i petrolieri.

Perfino gli ambientali­sti che si battevano con­tro l’energia atomica. La centrale di Montalto di Castro è stata anzi la loro più grande sconfitta. A me­tà degli anni 80 erano ag­guerritissimi. Qualche an­no prima c’era stato l’inci­dente di Three Mile Island che aveva dato spunto al fa­moso film Sindrome cinese e il movimento antinucleare si era diffuso in tutta Europa. An­che se non aveva molta udienza presso i governi.

Per gli oppositori dell’atomo, in Italia, non andava molto meglio. Finché, nella primavera del 1986 a Chernobyl, in Ucraina, si verificò la catastrofe nucleare più grave della storia. E gli eventi precipitarono. Il governo del segretario socialista Bettino Craxi cavalcò immediata­mente l’onda antinucleare. Ben pre­sto furono superate anche le resi­stenze all’interno della Democrazia cristiana e dello stesso Partito co­munista. E il referendum del 1987 passò con un consenso mai regi­strato prima. Di colpo, in Italia, i nu­clearisti erano scomparsi.

Era novembre, al governo Craxi era subentrato quello di Giovanni Goria: tutto avvenne con una rapi­dità impressionante, considerando i tempi geologici delle decisioni ita­liane. Con un paradosso, che gesti­re la frase di transizione toccò a un ministro, tra gli altri, Adolfo Batta­glia, esponente dell’unico partito, quello repubblicano, che aveva so­stenuto fino all’ultimo, contro tut­to e tutti, la scelta nucleare.

Per prima cosa la chiusura delle centrali in attività. I quesiti referen­dari non avrebbero in teoria obbli­gato l’Enel a fermare i reattori. Ma il Psi e la Dc, con l’appoggio del Pci, interpretarono così la volontà poli­tica degli elettori. E fecero spegne­re gli interruttori. E i lavori alla cen­trale di Montalto di Castro, quasi completata, vennero interrotti. A quel punto cominciò una danza a suon di quattrini. L’Enel e le impre­se fornitrici rivendicarono innanzi­tutto i danni. E pure il pagamento dei pezzi ordinati e non consegna­ti, come appunto il reattore di Mon­talto di Castro. Poi la società elettri­ca, allora guidata da Franco Viezzo­li, fece presente che si rischiava il blackout. Bisognava provvedere e il Parlamento, nel quale erano en­trati anche gli alfieri del movimen­to antinucleare, come Gianni Mat­tioli, non alzò un dito. Non lo alzò quando le importazioni di elettrici­tà prodotta con il nucleare in Fran­cia esplosero. Ma non le alzò nep­pure quando si decise di costruire, accanto alla centrale nucleare di Montalto di Castro, già costata 7 mi­la miliardi di lire e che non fu sman­tellata perché si sarebbe speso trop­po (sic!), un secondo impianto da ben 3.200 Megawatt, a policombu­stibile. Grande quattro volte di più e con una specie di sberleffo agli ambientalisti costituito da una or­renda ciminiera alta 150 metri che si può ammirare da decine di chilo­metri. Altri 7 mila miliardi di lire, per una centrale nata già vecchia (non era a ciclo combinato, come quelle che venivano costruite allo­ra in tutto il mondo) e con costi di esercizio insostenibili.

Tanto insostenibili che oggi una delle centrali più grandi d’Europa resta accesa soltanto 2 o 3.000 ore l’anno, sulle teoriche 8.600 ore, per­ché l’energia prodotta lì è troppo cara. Intanto i privati non se ne sta­vano con le mani in mano. Molti italiani che avevano votato sì al re­ferendum antinucleare erano stati convinti dalla promessa che si sa­rebbe abbandonata la strada del­l’atomo per quella delle energie rin­novabili. Il governo approvò una delibera, la famosa delibera del Cip 6 che concedeva incentivi profuma­ti ai produttori di elettricità pulita. Soltanto che ci infilarono all’ultimo momento, dopo «energie rinnova­bili », le paroline «e assimilate».

Spalancando un’autostrada agli industriali siderurgici ma anche ai petrolieri che intascarono migliaia di miliardi di contributi pubblici, bruciando i «Tar»: così si chiama­no gli scarti della lavorazione del petrolio. Montedison, Falck, Riva, Moratti, fecero soldi a palate. E le famose energie rinnovabili? Di quelle per vent’anni neanche l’om­bra. Nel 2007 l’Italia produceva con il solare un cinquantesimo dell’elet­tricità prodotta in Germania attra­verso il fotovoltaico. In compenso siamo diventati il Paese con il re­cord mondiale del consumo degli inquinanti idrocarburi per la produ­zione di energia elettrica. Per non parlare dei costi. Quanti italiani do­po aver già sborsato 8 miliardi di euro per pagare all’Enel e ai suoi fornitori i danni dell’uscita dal nu­cleare, sanno che ancora pagano sulla bolletta elettrica un sovraprez­zo destinato a una società pubbli­ca, la Sogin, per lo smaltimento del­le vecchie scorie? E che lo pagheran­no ancora per una quindicina d’an­ni nella migliore delle ipotesi? Se la fallimentare operazione di Montal­to di Castro è costata 250 euro a ogni cittadino italiano, 15 miliardi e mezzo di euro in tutto compresi i maggiori costi del petrolio rispetto a quelli dell’uranio, l’uscita dal nu­cleare è stata ancora più cara: 424 euro pro capite, cioè 25,5 miliardi di euro.

E con quale risultato? Che siamo il Paese europeo più dipendente dal petrolio e dove l’energia costa più cara, che siamo il fanalino di co­da delle energie rinnovabili, che ab­biamo il primato delle importazio­ni e che ora abbiamo deciso di tor­nare al nucleare, per volontà di al­cuni di quei politici che venti anni fa avevano persuaso gli italiani a uscirne. E Montalto? Tranquilli, ci sono buone probabilità che l’ato­mo torni anche lì. Secondo il presi­dente di Edf, il partner nucleare del­l’Enel, Pierre Gaddonneix, quello è un posto ideale per una centrale nu­cleare. Come la chiameranno stavol­ta?