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 2009  luglio 13 Lunedì calendario

GLI AIUTI (AVARI) DEI RICCHI ALL’AFRICA


Cinque euro e 18 centesimi l’anno.

Cioè 43 centesimi al mese. questa la cifra stanziata per ogni africano dal G8 dell’Aquila. Ed è questa la ragione per cui il Papa, denunciando «sperequazioni sociali e ingiustizie strutturali non più tollerabili», tocca una ferita che butta sangue.

Tanto più che la somma degli aiuti complessivi ai Paesi poveri arriva appena appena allo 0,13% dei soldi stanziati in questi mesi per arginare la crisi nei Paesi ricchi.

Si dirà: l’aiuto massiccio alle ban­che, alle imprese, all’economia occi­dentale era prioritario per contene­re l’onda di piena e rimettere in mo­to quei meccanismi che, passata la grande crisi, consentiranno di redi­stribuire ricchezza. Difficile negar­lo: un tracollo del mondo più forte non aiuterebbe certo quello più fra­gile. Di più: lo stesso Obama ha spie­gato ad Accra che «il futuro dell’Afri­ca dipende dagli africani» e che «se è vero che l’Occidente ha avuto spes­so un approccio da padrone non è responsabile della distruzione del­l’economia dello Zimbabwe, delle guerre coi bambini-soldati, della corruzione o del tribalismo che pesa­rono anche sulla vita di mio padre». Insomma: a ciascuno le proprie re­sponsabilità.

Colpisce tuttavia lo squilibrio tra i due investimenti, quelli per «noi» e quelli per «loro». La Banca Mon­diale, ha scritto Iacopo Viciani su la­voce. info, aveva chiesto mesi fa «ai Paesi industrializzati di destinare lo 0,70% delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi per interventi a sostegno di infra­strutture e welfare di base nei 43 Pa­esi in via di sviluppo più esposti alla crisi». Non per carità cristiana: per­ché siamo dentro un sistema globa­le dove tutto si tiene e dunque tutti insieme si affonda, ricchi e poveri, e tutti insieme si resta a galla.

Due conti? Stando a un rapporto della Bank of England, Financial Stability Review, gli Usa, i Paesi del­l’area euro e la Gran Bretagna han­no investito in aiuti vari contro la crisi (comprese le garanzie) 14.800 miliardi di dollari. Una somma stra­tosferica. In rapporto alla quale, se i Paesi ricchi avessero accolto l’invito a versare lo «0,70% delle risorse stanziate dai provvedimenti nazio­nali anticrisi», avrebbero dovuto mettere insieme 103,6 miliardi di dollari. Cinque volte più di quei 20 miliardi decisi a L’Aquila (i più tir­chi siamo noi, che tagliamo e taglia­mo dal 1993) pari appunto allo 0,13%. Insomma, ogni mille euro an­dati ai «ricchi» ne andranno ai pove­ri 13.

Per carità, può darsi che le due ta­belle non siano perfettamente con­frontabili.

Ma certo fa effetto mette­re a confronto i toni dell’annuncio per quei «venti miliardi di dollari in tre anni!» con i grandi numeri. Non solo quei venti miliardi (pari a circa 14,4 miliardi di euro) sono pari a un trentunesimo di quanto persero le sole Borse europee nella sola giorna­ta nera del 21 gennaio scorso. Ma in rapporto ai 920 milioni di abitanti del continente nero, ammesso che quei soldi siano reali e arrivino solo lì, significano 21,7 dollari per ogni africano in tre anni. Cioè, come dice­vamo, 5 euro e 18 cent l’anno a per­sona. Cosa ci viene ripetuto da sem­pre: che bisogna smettere di regala­re ai miserabili un pesce perché è meglio dargli una canna e insegnar loro a pescare? Bene: con quei soldi un africano può comprare, una vol­ta l’anno, si e no un amo e due metri di filo. La canna e i vermi deve pro­curarseli da sé. Dopodiché, s’inten­de, gli resterà il problema dell’ac­qua.

Immaginiamo l’obiezione: la via d’uscita non può essere la carità. Ve­ro. Come ricorda la stessa voce.info c’è chi, quale Adrian Wood, profes­sore di economia a Oxford, ha soste­nuto sul Financial Times che poi­ché in molti Paesi «gli aiuti costitui­scono più del 10% del prodotto na­zionale e quasi metà del bilancio pubblico» e poiché questa dipen­denza «è causa di una serie di gravi problemi, dovuti soprattutto al fat­to che i governi devono rendere con­to principalmente ai Paesi donatori invece che ai propri cittadini», biso­gnerebbe «limitare i flussi degli aiu­ti a ciascun Paese al 50% delle tasse che il governo è in grado di racco­gliere a livello domestico». Giusto? Sbagliato? Il dibattito è aperto.

Certo è che, come gli stessi gran­di hanno riconosciuto al G8, la ri­monta dei Paesi poveri non può co­minciare senza nuove regole del commercio mondiale. «I dazi impo­sti dai Paesi industrializzati su ali­menti base quali carne, zucchero e latticini sono circa cinque volte su­periori ai dazi imposti sui manufat­ti. Le tariffe doganali dell’Ue sui pro­dotti della carne raggiungono punte pari all’826%» accusava nel 2001 Ko­fi Annan. Tre anni fa, lo United Na­tions Development Programme con­fermava: «Le tariffe commerciali più alte del mondo sono erette con­tro alcuni dei Paesi più poveri. In media le barriere commerciali per i Paesi in via di sviluppo che voglio­no esportare verso i Paesi ricchi so­no da tre a quattro volte più alte di quelle in vigore tra i Paesi ricchi». Per non dire degli aiuti agli agricol­tori: un miliardo al giorno in sussidi per prodotti coi quali, a quel punto, i contadini dei Paesi in via di svilup­po non possono sognarsi di compe­tere.

Nel 2006 la Oxfam (una grossa ong britannica) ha fatto una stima: se Africa, Asia e America Latina au­mentassero la loro quota del com­mercio mondiale dell’1% (l’uno per cento!) uscirebbero dalla povertà 128 milioni di persone. Eppure, spie­ga Paolo de Renzio, dell’Università di Oxford, le cose sono addirittura peggiorate: «Nel 2009, l’Overseas Development Institute di Londra ha accertato che il valore del commer­cio per i Paesi in via di sviluppo sta scendendo. In Indonesia, le esporta­zioni di prodotti elettronici, 15% del totale, sono calate in un anno del 25%. Nel settore tessile in Cambo­gia, il valore delle esportazioni è sce­so da 250 milioni di dollari al mese a 100 milioni. Il prezzo di materie prime come rame e petrolio è calato drasticamente, con effetti devastan­ti, in Nigeria, Zambia, Bolivia».

Conclusione: «Quei venti miliar­di, di cui solo una parte dovuti a nuove iniziative, sono in realtà una semplice pezza per i problemi, ag­gravati, che tanti Paesi devono af­frontare a causa di una crisi globale di cui non sono affatto responsabi­li ».