Ivo Romano, Il Riformista 11/07/2009, 11 luglio 2009
Una storia ancor breve. Ma una storia che si compone già di cento capitoli, l’ultimo da scrivere oggi, nella cornice del Mandalay Bay di Las Vegas, l’hotel-casino che chiude con la sua mastodontica sagoma lo Strip della città del vizio
Una storia ancor breve. Ma una storia che si compone già di cento capitoli, l’ultimo da scrivere oggi, nella cornice del Mandalay Bay di Las Vegas, l’hotel-casino che chiude con la sua mastodontica sagoma lo Strip della città del vizio. Ultimate Fighting, si chiama così. E il nome è tutto un programma. Uno spazio ottagonale, delimitato da una gabbia. Una sorta di ring, ma dai tratti primitivi. Roba da antichi gladiatori, da figther di razza, da combattenti all’ultimo sangue. Chè lì tutto è consentito, o quasi. Poche regole, essenziali. Qualche divieto, di poco conto. L’avversario non lo si può mordere, e neppure gli si possono ficcare le dita negli occhi. Neanche i colpi al basso ventre, i più pericolosi, sono ammessi. Per il resto, tutto è concesso. Un rito violento, spesso disadorno, comunque cattivo. Una disciplina dai contorni atavici: brutalità allo stato puro, con poche norme, incapaci di limitarne la crudezza. Uno sport che affonda le sue radici in tempi remoti, radici che a seguirne il percorso portano fino in Brasile, alle lande più povere e sperdute della terra del futebol. Lì lo chiamano Valetudo (in italiano, "vale tutto"), come a evidenziare il disprezzo per norme che lo incanalino nei binari di uno sport normale. Un’unica radice, innumerevoli derivazioni: "street fight", "cage fight", "free fight", "no holds barred", perfino i giapponesi vi hanno pescato per dar vita al loro K-1. Piccole differenze, sottigliezze, sfumature. In Europa l’avevano importato gli olandesi, anni addietro. Poi è stata la Scandinavia a tenerne alta la bandiera. Chi l’ha tirato fuori da minuscole e fumose arene per farne spettacolo appetibile per il grande pubblico sono gli americani. La strada è stata lunga, irta di ostacoli, tra polemiche e divieti (è bandito da alcuni Stati degli Usa). Una strada imboccata più di una decina di anni or sono dai pionieri dell’Ultimate Fighting Championship, che passo dopo passo l’hanno trasformato in fenomeno di massa, in spettacolare carrozzone itinerante, sbarcato fin dentro la scintillante Las Vegas, ospitato dagli hotel-casinò dove un tempo spopolavano i fuoriclasse del pugilato, ora annegati nel marasma della crisi. Nessuna finzione, come nel wrestling. La trama è semplice, scontata. lotta fra disuguali (anche perché le categorie di peso sono solo quattro), tra nerboruti atleti tirati a lucido, magari esperti di arti marziali, e improbabili energumeni da circo, avvezzi nient’altro che alla violenza da strada. Che, poi, un gigantesco bruto possa massacrare di botte un campione di judo, karate, tae kwon do, ju jitsu rappresenta il fascino dell’Ultimate Fighting e della sua allergia a restrittive norme. Perché ognuno ha la sua tecnica, per qualcuno sopraffina, per altri approssimativa. E ognuno ha il suo approccio, per qualcuno studiato, per altri improvvisato. C’è chi si affida alla lotta, chi punta ad accorciare la distanza con l’avversario, ad avvilupparlo nel suo muscolare abbraccio, fino a costringerlo alla "submission" (sottomissione): il fighter batte per tre volte la mano a terra, in segno di resa. E c’è chi spara colpi inauditi, pugni, calci, gomitate, e non si ferma neppure dinanzi a un rivale immobile, privo di difesa, continua a colpirlo senza pietà, finché non arriva lo stop dell’arbitro e mette fine alla contesa. Si vince per ko, per "submission" o ai punti. Dopo che il sangue è scorso copioso sull’Oktagon, sull’ottagono. Pura violenza, che piace ai giovani. Tanto che Forbes l’ha definito «il brand sportivo in più rapida crescita negli Usa». O che Time gli ha attribuito un potenziale economico pari a un miliardo di dollari. Un miracolo, se si pensa che Dana White, l’autentico deus ex machina, nel 2001 investì due milioni per il marchio. Ma da allora è stato un crescendo senza fine. All’Ufc hanno legato il proprio marchio aziende come Harley Davidson e Bud Light, i match sono televisti in 36 Paesi del mondo, negli States vanno in onda su Spike, canale sempre più in auge. In pay-per-view non si va mai sotto il milione di acquisti, a ogni riunione. E quando il circo dell’Ufc si recò in Inghilterra (il Paese europeo che l’ha già ospitato più volte) furono cinque milioni gli americani che non si scollarono da Spike Tv. Oggi, l’evento numero 100. Undicimila biglietti (dai 100 ai 1000 dollari) esauriti in poche ore, 300 accrediti stampa da mezzo mondo, l’obiettivo di 1,5 milioni di acquisti in pay-per view. Mentre i bagarini fanno affari d’oro: 450 dollari per i posti più economici, addirittura 45mila per le sedie a bordo gabbia. Undici match, un pezzo di storia. La cui crescita non accenna ad arrestarsi.