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 2009  luglio 07 Martedì calendario

PROVA DEL FUOCO PER OBAMA


Clare Boothe Luce, scrittrice e ambasciatore degli Stati Uniti a Roma dal 1953 al 1956, disse un giorno che «no good deed goes unpunished», che tutte le buone azioni vengono prima o dopo punite. Temo che l’amaro detto della signora Luce si applichi alle eccellenti intenzioni che Barack Obama aveva annunciato nel corso della campagna elettorale: una grande riforma sanitaria per i 40 milioni di americani che sono pressoché privi di qualsiasi protezione, la chiusura del carcere di Guantanamo, il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, la mano tesa al regime iraniano, una nuova offensiva militare in Afghanistan e la soluzione dell’imbrogliata questione palestinese.

Tralascio la riforma sanitaria, che meriterebbe un discorso a parte, e cerco di riassumere gli ostacoli che Obama deve affrontare. Guantanamo è un osso duro. Quando sarà riuscito a sfoltire, con l’aiuto degli alleati, il numero dei prigionieri (oggi sono circa 250), il presidente si troverà pur sempre fra le mani un centinaio di uomini che non possono essere processati (le confessioni sono state ottenute con la tortura, le prove sono documenti segreti difficilmente utilizzabili) e che sono considerati pericolosi dai servizi d’intelligence. Chiuderà il campo, prima o poi, ma dovrà pur sempre trovare un luogo in cui rinchiuderli a tempo indeterminato. E gli sarà più difficile sostenere che l’America di Obama è completamente diversa da quella di George W. Bush.

Il ritiro delle truppe americane dalle città irachene e il passaggio dei poteri alle autorità di Baghdad sono cominciati nella peggiore delle condizioni possibili. Al Qaeda in Mesopotamia e i gruppi del nazionalismo sunnita hanno approfittato della decisione di Obama per scatenare una sanguinosa campagna di attentati che si propone d’indebolire il governo di Nuri al-Maliki e di screditare la strategia del presidente americano. Fra qualche settimana Obama potrebbe essere costretto ad affrontare un drammatico dilemma: restaurare il regime d’occupazione o permettere che il governo iracheno perda gradualmente il controllo del paese.

Dopo le elezioni iraniane, Obama ha fatto del suo meglio per evitare dichiarazioni che avrebbero pregiudicato l’avvio dei negoziati con il vincitore. Ma la dura repressione del dissenso nelle strade di Teheran lo ha costretto ad alzare il tono della protesta e ha regalato in tal modo alla dirigenza iraniana l’occasione di affermare che «Obama parla come Bush». Se tace, presta il fianco ai suoi oppositori americani; se accusa il regime di Teheran, rischia di pregiudicare la prospettiva del negoziato.

In Afghanistan Obama sa che occorre trattare con l’ala meno radicale del movimento talebano, ma sa altresì che occorre, prima di cominciare a negoziare, un importante successo militare. Sperava di poter contare su un consistente apporto di truppe alleate, invece il contributo della Nato rimane nel complesso modesto.
Per avviare il negoziato sulla questione palestinese e convincere gli estremisti delle due parti ad accettare un compromesso, Obama deve anzitutto convincere il premier israeliano a bloccare gli insediamenti ebraici nei territori occupati. Però Benjamin Netanyahu resiste, forse nella speranza che le molte difficoltà sorte sul cammino di Obama lo costringano a rivedere la politica della mano tesa.

Continuo a pensare che la linea politica tracciata da Obama nel suo discorso del Cairo sia la migliore delle linee possibili. Ma i suoi avversari, negli Stati Uniti e in Medio Oriente, approfitteranno delle circostanze per cercare di boicottarla. Comincia ora, a pochi mesi dall’ingresso alla Casa Bianca, un momento decisivo della presidenza di Barack Obama.