Enzo Bettiza, La stampa 10/7/2009, 10 luglio 2009
PECHINO TREMA SE PERDE LO XINJIANG
La precipitosa fuga dall’Italia di Hu Jintao, presidente della Repubblica cinese, offre diverse e comprensibili interpretazioni. Anzitutto la sua ansia di non farsi intrappolare dagli eventi dello Xinjiang in fiamme, come accadde ai tempi di Tienanmen allo sfortunato segretario del partito Zhao Ziyang, e quindi la necessità di parare per tempo a Pechino possibili contraccolpi di potere.
Si somma inoltre, a queste ovvie preoccupazioni, anche un dato biografico d’importanza politica e tecnica inseme: Hu Jintao era il ras comunista del Tibet quando nel 1989 scoppiò una prima grave rivolta dei monaci di Lhasa. Verrebbe fatto di dire: chi meglio di lui, presidente della repubblica, segretario del partito, esperto repressore di sommosse etniche, potrebbe oggi essere in grado di affrontare lo spettro di una guerra civile nel Far West dell’immensa Cina?
In seconda battuta le cose appaiono invece più complicate, sia per Hu personalmente, sia per il partito collegialmente, sia per l’oceano umano sempre più irrequieto alle loro spalle. C’è una notevole differenza, per la stabilità strategica della Cina, tra un Tibet isolato sulle vette dell’Himalaya, popolato da poco più di tre milioni in maggioranza buddisti, e uno Xinjiang di venti milioni d’abitanti di cui circa la metà è d’etnia turcofona e di religione islamica. Il Tibet per i cinesi fu ed è un simbolo di potere imperiale, una seconda muraglia stratosferica confinante col cielo, un emblema di raffinato e armonioso possesso orografico. Quanto alla sovranità tibetana, tutti sanno che non arriverà mai. Le sommossse, lassù, si placano e riassorbono con la stessa veloce imprevedibilità con cui esplodono. Pechino stessa sa che, prima o poi, dovrà concordare con il sorridente Dalai Lama qualche più ampia concessione autonomistica e che il tasso del separatismo tibetano si fermerà lì.
Altra e ben più pericolosa è la situazione sulla cosiddetta «Nuova Frontiera» della Cina. Qui tutto è più fluido, geograficamente più permeabile, etnicamente e religiosamente più intricato. Qui i confini dell’antico Turkestan cinese, noto in Occidente come Sinkiang, ribattezzato nel 1955 «Regione autonoma uigura dello Xinjiang», sfumano e quasi si confondono con gli idiomi e la confessione delle repubbliche musulmane ex sovietiche dell’Asia centrale; dall’Uzbekistan, dal Kazakhistan, dal Turkmenistan, dall’Afghanistan filtrano fin qui i semi del sufismo sunnita che, stimolati dalle invasioni modernizzatrici cinesi, attecchiscono con relativa facilità nelle tradizionali moschee turcomanne degli uiguri e dei kazaki indigeni. Pure la storia da queste parti era stata fluida e incerta, visibile e invisibile come la Via della Seta o le scorrerie saccheggiatrici delle orde di Gengis Khan. I legami con la Cina vera e propria erano stati sempre episodici; la conquista definitiva della regione avvenne appena nel 1884, sotto la dinastia manciù dei Qing. Ma fu, più che altro, un palliativo, un blasone geografico esterno di un impero in declino. La normalità, tra un flagello e l’altro, non arrivava mai. Basti pensare che ai tempi della prima repubblica cinese, dal 1912 in poi, quando la legge la facevano le baionette dei governatori militari, i vari distretti o «prefetture» della sperduta contrada vivevano in una dimensione estranea ad ogni forma di economia moderna. Non esistevano banche, mentre circolavano quattro monete differenti, chiamate «tael», i cui reciproci tassi di cambio variavano da Urumqi a Turfan, da Kashgar a Ili.
La Cina contemporanea, la Cina comunista, non ha certo usato il guanto di velluto nello Xinjiang «autonomo» di nome. A partire dagli anni cinquanta i maoisti vi provocarono una sequela di disastri. Le gigantesche e fallimentari comuni distrussero una società arcaica, islamizzata da secoli, dove gran parte del mercato rurale si fondava ancora sulla pastorizia, sul nomadismo, sul bazar; dopodiché l’ateismo profanatorio delle guardie rosse, ai tempi della rivoluzione culturale, approfondì l’oltraggio violentando moschee e bazar e annientando quel poco che restava di una piccola economia agraria individualistica e naturale. I primi esperimenti riformatori che Deng Xiaoping, dopo le tabule rase di Mao, tentò di introdurre nella regione precipitata nella miseria, io li riscontrai sul posto nel 1987 e, per quanto riuscivo a capirne, mi sembrarono positivi.
Ricordo una visita in una delle prime aziende «capitaliste» di Urumqi fondata sulla principale materia greggia locale: abbigliamenti di lana e di cashmere. Scelta oculata, volta alla creazione di un’industria leggera legata all’ambiente pastorale del luogo. Niente più tute paramilitari di cotone blu, bensì maglioni e pullover squillanti nelle tinte dell’arcobaleno. L’inattesa ditta di Urumqi, come mi disse il direttore, impiegava oltre 1300 operaie, aveva un suo ufficio a Hong Kong, importava metodi manageriali dal Giappone, si finanziava con un 38 percento di capitali stranieri, e competeva già allora sui maggiori mercati delle Americhe e d’Europa. Sembrava un miraggio emerso, più che dalla testa di Deng, dai vortici dell’uragano nero, il «karaburan», che da febbraio a marzo trasforma le sabbie eterne del Takla Makan in un regno d’allucinazione.
Ma si avvertiva già l’altra faccia del miracolo denghista: l’alluvione migratoria della schiacciante etnia han verso una terra ricca di giacimenti di petrolio, di gas, di minerali. Nel 1949, su una popolazione globale di poco meno di cinque milioni, i cinesi han erano appena trecentomila. Prima ancora, cinese era soltanto il mandarino, il governatore, l’esattore, l’usuraio, il signore della guerra. Nell’anno del mio soggiorno erano già cinque milioni contro altrettanti cinque di uiguri. Oggi il rapporto è raddoppiato anche se, nella sostanza, è rimasto paritario: circa dieci milioni contro dieci. Ma si tratta, purtroppo, come stiamo vedendo in questi giorni, di milioni in gran parte radicalizzati dall’una e dall’altra parte: molti i fondamentalisti tra gli uiguri musulmani, moltissimi i nazionalisti tra i cinesi han. La cinesizzazione modernizzatrice, ma fomentatrice al tempo stesso di discordia e d’invidia sociale, ha prevalso nel governo delle istituzioni regionali, municipi, sedi di partito, camere di commercio, grandi e medie aziende. La capitale Urum-qi, due milioni e mezzo d’abitanti, è ormai più cinese che uigura. S’aggiunge poi al tutto la nevrosi di frontiera. Ancora nelle epoche in cui non si vedevano nel Nord-Ovest molti cinesi, i signori di Pechino consideravano quell’Estremo Occidente come un valico invitante alle invasioni da Alessandro Magno fino ai russi zaristi e sovietici. All’istinto millenario di ogni han è rimasto sempre presente un vecchio monito: «Se lo Xinjiang è perduto, la Mongolia è indifendibile e Pechino è vulnerabile». Le sorti dello Xinjiang, la sua prosperità, sono ormai inscindibilmente legate ai ritmi e ai successi del continente cinese nel suo complesso. Così come le sorti del continente restano, più che mai oggi, notevolmente legate alla stabilità politica dello Xinjiang e alla convivenza pacifica tra le due maggiori etnie che ne compongono il frantumabile mosaico.