Vottorio Emanuele Parsi, La stampa 10/7/2009, 10 luglio 2009
NON E’ LO SVILUPPO CHE FA LA DEMOCRAZIE
Un saggio sfata il luogo comune che la considera
incompatibile con l’arretratezza economica
A partire dalla fine della Guerra fredda il tentativo di tracciare una «geografia della democrazia» ha comportato la necessità di affrontare due questioni distinte e correlate: quella dell’esaurimento della forza propulsiva della «terza ondata» di democratizzazioni (descritta da Samuel Huntington) e quella dei limiti culturali e sociali che possono ostacolare, ritardare, impedire la transizione e il consolidamento democratico al di fuori di quelle aree in cui le democrazie si sono per lungo tempo attestate (in buona sostanza, l’Occidente). Oggi, mentre la crisi economica e finanziaria è sembrata giungere a un passo dal far vacillare le stesse fondamenta del mercato globale, torna però d’attualità un interrogativo che sembrava ormai marginale nel dibattito politico e culturale, e cioè quello dell’eventuale attrito tra capitalismo e democrazia. Sono precisamente questi i temi principali affrontati dall’eccellente volume di Angelo Somaini Geografia della democrazia, Il Mulino (pp. 560, euro 32). Giovandosi anche dell’aiuto di Francesco Mareggini, Somaini, che con Angelo Panebianco e Leonardo Morlino ha dato vita tre anni or sono alla Società per lo Studio della Diffusione della Democrazia, raccoglie, elabora e confronta in maniera davvero sistematica una mole ragguardevole di dati e di ipotesi sulla democratizzazione.
Così, in questi mesi di geremiadi globali, quando lo spirito di Cassandra sembra essersi ridestato, giova rammentare una semplice, per quanto scomoda, verità: le istituzioni democratiche hanno storicamente dimostrato una straordinaria capacità di convivere con alti tassi di diseguaglianza economica, riuscendo semmai a ridurla nel tempo, proprio attraverso la propria azione. Al contrario, quelle forme politiche che hanno collocato l’eguaglianza come obiettivo e premessa di una «democrazia sostanziale» hanno finito per rendere impossibile anche la «democrazia formale», cioè quella che si accontenta di postulare l’eguaglianza di fronte alla legge, la rule of law, la responsabilità dei governanti di fronte ai governati, la separazione dei poteri, la rappresentanza e la selezione elettorale delle leadership (i diritti politici e civili nell’accezione di Marshall). Basti pensare al caso dell’India, che, ancorché presenti un livello di diseguaglianza tuttora elevato e a prescindere dall’organizzazione sociale per caste, è, nel mondo extra-occidentale, una democrazia tra le più antiche.
Proprio il caso indiano permette di sviluppare due considerazioni ulteriori. La prima è rammentarci che laddove sorse originariamente - in Inghilterra, Francia e Stati Uniti - la democrazia dovette sfidare e sconfiggere nemici agguerritissimi: il tradizionalismo sociale, l’idea che l’esercizio del potere fosse riservato esclusivamente a determinati ceti e legittimato per via ereditaria, condizioni brutali di sfruttamento e un radicato pregiudizio favorevole alla naturalità della diseguaglianza, ingiustizia sociale e arretratezza culturale. E nonostante tutto ciò, incredibilmente, verrebbe da aggiungere, sopravvisse e si affermò. Sarebbe perciò opportuno rivedere il diffuso scetticismo che circonda la possibilità che le istituzioni democratiche possano consolidarsi laddove esse non sono mai state sperimentate in precedenza, spesso rafforzato dall’argomentazione che, proprio in Occidente, lo stesso processo ha richiesto decenni, quando non secoli. La realtà è affatto diversa, ci ricorda Somaini, poiché, «molte delle condizioni necessarie per una democrazia e che hanno impiegato tanto tempo a maturare in paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna sono già presenti non solo nelle nuove democrazie, ma anche nei paesi che ancora democratici non sono»: dalla parità di genere allo sviluppo tecnologico, dall’accesso ai mass media al ruolo non necessariamente conservatore ricoperto oggi delle grandi religioni.
La seconda considerazione è che, in barba ai più triti luoghi comuni, la democrazia è compatibile con una serie molto ampia di tradizioni culturali, al punto che non esiste paese per il quale essa possa essere esclusa a priori. L’instaurazione democratica può cioè avere chances anche in società estremamente poco sviluppate e dove essa non ha precedenti storici, perché non esiste praticamente cultura in cui i principi democratici «siano completamente estranei e nella quale non possano essere trovate ragioni per affermarli» (esemplare in tal senso il caso del Botswana). Detto altrimenti, in ogni cultura, compresa quella islamica, esistono gli enzimi che consentono di metabolizzare le istituzioni democratiche. Evidentemente questo non garantisce il successo dei tentativi in corso in Iraq o in Afghanistan, mentre induce a seguire con partecipe interesse l’esperimento della Turchia di Erdogan.
Ma, che cosa consente che il processo di democratizzazione abbia successo, che le nuove istituzioni mettano radici? E, domanda quanto mai attuale, tra i fattori interni e quelli esterni (la cosiddetta promozione della democrazia) quali risultano essere decisivi? Ancora una volta l’ampia casistica ormai disponibile suggerisce una risposta. Senza dubbio, lo sviluppo culturale e sociale interno sono fattori tutt’altro che irrilevanti per il buon esito conclusivo della transizione democratica. Ma se l’ambiente internazionale non presenta le circostanze favorevoli la democratizzazione non può consolidarsi e, molto spesso, neppure essere avviata: in tal senso si pensi, in negativo, al fallimento dei regimi liberali nell’Europa della Restaurazione e della Santa Alleanza e, in positivo, all’effetto del crollo dell’impero sovietico e alla successiva azione di promozione e tutela delle nuove democrazie garantita dall’allargamento dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea dopo il 1989.