Sergio Romano, Corriere della sera 10/7/2009, 10 luglio 2009
GANDHI A PALAZZO VENEZIA E L’AMMIRAZIONE DI GENTILE
Vorrei chiedere la sua opinione riguardo a un fatto storico di cui, mi pare, si discute poco. Mi riferisco alla visita che Gandhi compì a Roma il 12 dicembre 1931.
Cercava un qualche genere di appoggio dallo Stato italiano in funzione anti-britannica? Nutriva per Mussolini una certa ammirazione? E quali furono i motivi che spinsero papa Pio XI a non riceverlo in udienza?
Jacopo Albertoni
albertonj@yahoo.it
Caro Albertoni,
Sui venti minuti che Gandhi trascorse a Palazzo Venezia con Mussolini esistono poche informazioni. Sappiamo che il Mahatma veniva da Londra, dove aveva partecipato a una storica tavola rotonda sul futuro dell’India, e che era già una personalità molto nota, oggetto di curiosità e di simpatia. Esiste una fotografia in cui Gandhi è circondato da alcuni esponenti del partito fascista in uniforme e da qualche bambino vestito da Balilla. E ne esiste un’altra in cui è salutato da un gerarca con il saluto romano. La leggenda vuole che Mussolini abbia organizzato per lui un concerto a Villa Torlonia e che Gandhi, vestito del suo succinto costume, vi sia arrivato tirandosi dietro la capretta che era diventata una sorta di simbolo araldico della sua filosofia politica e morale. Quel costume succinto, incidentalmente, sarebbe la ragione inconfessata per cui Pio XI preferì evitare l’udienza che gli era stata chiesta.
Non credo che l’incontro con Mussolini abbia avuto una connotazione politica. Nel 1931 Mussolini non era antibritannico e faceva verso la Gran Bretagna, grosso modo, la politica di tradizionale amicizia dell’Italia post-unitaria. Quando cambiò la sua linea, all’epoca della guerra d’Etiopia, e cominciò a coltivare l’amicizia dei nemici dell’Impero britannico, puntò su Chandra Bose, il nazionalista indiano avversario di Gandhi. Nel dicembre 1931 Mussolini e il Mahatma godevano entrambi di grande notorietà e ciascuno dei due era incuriosito dalla personalità dell’altro. Vale la pena di ricordare che nel settembre dello stesso anno era apparsa a Milano, presso la casa editrice dei Fratelli Treves, una autobiografia di Gandhi scritta in realtà da un suo ammiratore inglese, C. F. Andrews, sulla base di alcuni prolissi testi autobiografici già pubblicati in India. È probabile che Mussolini l’abbia avuta per le mani e abbia letto, in particolare, la lunga prefazione scritta da Giovanni Gentile.
Il filosofo dell’idealismo attuale era stato colpito dal modo in cui Gandhi aveva vissuto e praticato i suoi ideali. Scrisse che il Mahatma voleva «giungere alla Verità attraverso l’Ahimsa (benevolenza, amore per gli uomini): dottrina religiosa che (...) è una dottrina etico-politica che ha esercitato una potente azione, come tutti sanno, in India, dando un’anima e una volontà a moltitudini di uomini destatisi al contatto di un governo europeo e della vita europea, a una nuova coscienza di sé». Sul metodo politico della Satyagraha (una combinazione di verità e fermezza che gli inglesi interpretarono come «resistenza passiva»), Gentile scrisse parole che dedico a Marco Pannella: «È una disobbedienza, ma è una disobbedienza civile; di cui il cittadino è capace soltanto ’quando ha dimostrato di essere rispettoso e ossequente delle leggi dello Stato’ poiché (...) solo quando un individuo ha obbedito scrupolosamente a tutte le leggi della società in cui vive, è in grado di giudicare quali leggi sono giuste e buone, quali ingiuste ed inique». Sono parole che dimostrano quanto sia sommario definire Gentile «filosofo del fascismo».