Gian Antonio Stella, Corriere della sera 10/7/2009, 10 luglio 2009
MASCHERE, SPAGHETTI E MAFIA I (PRE)GIUDIZI SUL CAVALIERE
La stampa estera e quei luoghi comuni buttati addosso all’Italia
«Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?», si chiedeva Donatien- Alphonse- François marchese de Sade. Oltre due secoli dopo, quel sentimento di sottile pregiudizio verso gli italiani, di ammirazione sempre smorzata da una certa incredula ironia, di amicizia venata da un pizzico di diffidenza, continua a riaffiorare anche dietro i giudizi degli stranieri su Silvio Berlusconi.
Intendiamoci: le critiche al Cavaliere, anche le più dure, sono legittime. E i lettori sanno che questo giornale non ha mai fatto sconti. Ed è vero che qualche volta lui stesso se le va a cercare. Un esempio? L’invito agli imprenditori americani a investire da noi perché c’è il sole e «oltre al bel tempo e alla bellezza dell’Italia, abbiamo anche bellissime segretarie». Per non dire dell’insistenza sul nostro essere «i più simpatici del mondo ».
Nessuno sceglie un dentista o un chirurgo perché è «simpatico ». E così il socio in un grosso investimento industriale.
Detto questo, perfino gli avversari più critici avrebbero buoni motivi per essere infastiditi dal costante riemergere, attraverso il berlusconismo, di vecchi, rancidi, insopportabili stereotipi che hanno fatto soffrire e arrabbiare i nostri padri, i nostri nonni, i nostri bisnonni. Lo ammise tempo fa, proprio sul «Corriere», anche l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott: «Non vediamo l’ora di trovare una scusa per riproporre i soliti pregiudizi e luoghi comuni sull’Italia e gli italiani. Vogliamo parlare di sesso e belle donne, e della mania italiana per il calcio. (...) gongoliamo addirittura se si tratta di menzionare la mafia».
Donne, sesso, calcio, mafia. Non c’è argomento usato contro il Cavaliere che non sia stato automaticamente buttato addosso a tutti gli italiani, compresi quanti berlusconiani non sono. Ed ecco Der Spiegel fare una copertina sul leader della destra col titolo «Der Pate» (il Padrino) e bollarlo come «Al Cafone ». Ecco la Bbc dedicare un documentario all’Italia berlusconiana con la colonna sonora del film di Francis Ford Coppola.
Ecco Eva Erman, sul quotidiano svedese «Dagens Nyheter », scrivere che «la saga mafiosa di oggi, con Don Berlusconi nel ruolo principale, non ha lo stesso pathos nel racconto. Costui è semplicemente un ’padrinowannabe’, un aspirante padrino. (...) Don Corleone per costruire il suo impero e proteggere la sua famiglia violava spesso la legge e corrompeva i politici, se non li ammazzava. Creava delle proprie regole e una propria morale. Don Berlusconi invece modifica la legge. Se è sotto processo per falso in bilancio fa modificare la legge sui tempi di prescrizione».
Conclusione: «Forse è davvero giunto il momento di un parricidio per cercare di fare entrare un po’ di aria fresca nello stivale dell’Europa e togliere l’odore del più puzzolente sudore del piede». Puzza che il premio Nobel José Saramago avverte ancora più forte: «Ma nella terra della mafia e della camorra, che importanza può avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente?» Va da sé che il giudizio sul Cavaliere ricade su chi lo ha messo in sella. «Ci sono Paesi che non si meritano i loro governanti. Quasi nessuno. Però l’Italia, per poco che stimi la politica, dovrebbe comportarsi più degnamente», accusa un giorno Antonio Gala su «El Mundo». Conclusione? «Impossibile credere in un popolo che vota un simile mostro. A meno che non lo abbia eletto per scherzo...».
«El País» concorda. E come titola un servizio sul nostro Paese? Tirando in ballo la pasta, i maccheroni, gli spaghetti. Titolo: «La espagueti- democracia». Occhiello: «L’Italia rivive la sua leggenda di anomalia europea ».
D’altra parte, cosa aspettarsi da un Paese che ha prodotto Pulcinella e Arlecchino e tante maschere che hanno reso grandi la nostra commedia, i nostri teatri dei pupi, la nostra letteratura? «Dobbiamo ammettere che i nostri scandali mancano di brio rispetto a quelli dei nostri vicini. Per esempio noi potremmo cercare invano un personaggio così pittoresco come Berlusconi», spiega Gerard Dupuy su «Liberation» dopo il primo trionfo elettorale. Certo, ammette che «è un vezzo francese quello di fare la morale e guardare gli altri dall’alto. Il classico complesso di superiorità. Lo facciamo anche con altri Paesi». Ma «con l’Italia è più facile, dato il personaggio al governo ». Qual è dunque l’aggettivo scelto anni dopo dal Times per schiaffeggiare il Cavaliere? «Buffone».
Sempre lì si finisce. Sui buffoni, le maschere, gli spaghetti, la mafia, il sole, il mandolino o se volete la chitarra di Apicella... E poi l’italiano furbo e magari a volte genialoide ma inaffidabile come quando Montesquieu scriveva che «ognuno non pensa che a ingannare gli altri, a mentire, a negare i fatti». E poi Rodolfo Valentino e l’italiano galante e l’italiano donnaiolo immerso in una società ipocrita e corrotta come ai tempi in cui Flaubert metteva nero su bianco che le donne napoletane «sono sempre in eccitazione, fotto come un asino sbardato ».
E la mamma? Niente sull’Italia il Paese mammone, di cocchi di mamma e di mamme che «solo per te la mia canzone vola»? Ma certo: non ci è stato fatto mancare neppure questo. Ci pensò sei anni fa il New Yorker: «Nella letteratura ufficiale, questa straordinaria ascesa è trasfigurata, nella visione di Silvio, come la creazione di un mondo sicuro e libero per Rosella (...) Lei è l’emblema della mamma italiana. Spunta pressappoco in ogni conversazione con gli uomini della sua cerchia intima, una donna dalle omelie così improbabili che potrebbe essere la June Allyson dei malinconici anni Cinquanta...». Di più: «Se è vero il cliché che le più durevoli istituzioni dell’Italia - la Mafia e la Chiesa ne sono ovvi esempi - debbano il loro successo al prototipo della grande, autoritaria famiglia italiana, piena di minacce e pietismi, allora dovete guardare all’Italia di oggi come alla ’eredità di Rosella Berlusconi’».