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 2009  luglio 10 Venerdì calendario

LA LEPRE ASIA NON RAGGIUNGE LA TARTARUGA OCCIDENTE

L’Asia non è neanche vagamente vicina a colmare il gap economico e militare che ha accumulato nei confronti dell’Occidente. La regione produce più o meno il 30% dell’economia globale, ma a causa della sua smisurata popolazione ha un Pil pro capite pari soltanto a 5.800 dollari, contro i 48mila degli Stati Uniti. I paesi asiatici stanno febbrilmente incrementando e migliorando i loro eserciti e le loro dotazioni militari, ma nel complesso la loro spesa per la difesa nel 2008 è stata soltanto un terzo di quella degli Stati Uniti. Anche presumendo che l’attuale tasso record di crescita economica continui, occorreranno 77 anni perché l’asiatico medio possa raggiungere i redditi dell’americano medio; ai cinesi basteranno 47 anni, contro i 123 degli indiani. Infine, il budget militare di tutta l’Asia nel suo complesso non raggiungerà quello degli Stati Uniti prima di altri 72 anni.
 in ogni caso poco significativo parlare dell’Asia come di un’unica potenza,adesso o in futuro. molto più verosimile, invece, che la rapida ascesa di un protagonista regionale sia accolta con preoccupazione e allarme dai paesi confinanti. La storia di questo continente pullula di esempi di rivalità, antagonismo e lotte per il potere, nonché di conflitti militari tra i paesi più importanti. Cina e Giappone più volte si sono scontrati per la Corea; l’Unione Sovietica si alleò con l’India e il Vietnam per tenere sotto controllo la Cina, mentre Pechino diede il suo appoggio al Pakistan per controbilanciare la potenza indiana. Di recente, la rapida ascesa della Cina ha portato Giappone e India ad avvicinarsi. Se l’Asia diverrà - come pare probabile - il centro di gravità della geopolitica globale, sarà un centro alquanto oscuro.
Quanti reputano che le conquiste da parte dell’Asia in fatto di "hard power" portino inevitabilmente al suo predominio dal punto di vista geopolitico farebbero bene a prendere in considerazione un altro elemento cruciale dal punto di vista dell’influenza: le idee. L
a Pax Americana è stata possibile non soltanto grazie alla preponderante potenza economica e militare degli Stati Uniti, ma anche grazie a un insieme di idee visionarie e lungimiranti: il libero mercato, il liberalismo wilsoniano, le istituzioni multilaterali. Quantunque l’Asia abbia oggi le economie più dinamiche del pianeta, non sembra che possa di fatto ambire né assolvere a un ruolo altrettanto ispiratore e dar prova di una leadership ponderata. La grande idea che attualmente circola tra gli asiatici è l’empowerment : gli abitanti del continente asiatico si sentono meritatamente orgogliosi di essere impegnati in una nuova rivoluzione industriale, ma la fiducia in se stessi non è un’ideologia e il tanto decantato modello di sviluppo asiatico non pare proprio essere un prodotto esportabile.
1 L’ascesa dell’Asia è inarrestabile
Non scommetteteci: dai dati più recenti risulta in effetti che l’Asia è in grado di garantire il proprio status di superpotenza economica. Goldman Sachs, per esempio, prevede che la Cina supererà per reddito economico gli Stati Uniti nel 2027 e l’India recupererà il distacco entro il 2050.
Tenuto conto del basso reddito pro capite relativo in Asia, il suo tasso di crescita supererà indubbiamente quello dell’Occidente in un immediato futuro. Tuttavia la regione dovrà affrontare cambiamenti demografici epocali nei prossimi decenni: entro il 2050 più del 20% degli asiatici saranno anziani. L’invecchiamento della popolazione è la principale causa di stagnazione anche per il Giappone. Alla metà del prossimo decennio la popolazione anziana cinese s’impennerà: ciò implica che il tasso di risparmio pro capite precipiterà, mentre saliranno alle stelle le spese per l’assistenza medica e le pensioni. L’India è l’unica eccezione da questo punto di vista e rispetto a questi trend, che hanno tutti la possibilità teorica di contribuire a determinare uno stallo nell’espansione economica della regione. Altrettanto vincolanti e limitanti potrebbero rivelarsi le risorse ambientali e naturali: l’inquinamento sta avendo un sempre più grave impatto negativo sulla disponibilità di acqua pulita in Asia, e l’inquinamento dell’aria già oggi ha un impatto terribile sulla salute degli asiatici. Nella sola Cina quasi 400mila persone muoiono ogni anno, già adesso, per cause direttamente riconducibili all’inquinamento. In mancanza di progressi rivoluzionari nelle energie alternative, il continente asiatico dovrà dar fronte a una grave crisi energetica. E anche il cambiamento climatico presenterà il conto, compromettendo la produzione agricola nella regione.
Oltretutto, l’attuale crisi economica implicherà una fortissima eccedenza della capacità produttiva, mentre la domanda in Occidente continuerà a calare. Le aziende asiatiche, che dovranno far fronte a una domanda anemica a livello interno, non saranno in grado di vendere i loro prodotti nella regione: di conseguenza il modello di sviluppo asiatico che dipende interamente dalle esportazioni dovrà lasciare il passo ad altro o cessare in ogni caso di essere un motore di crescita praticabile.
Anche l’instabilità politica potrebbe far facilmente deragliare la locomotiva asiatica. Un crollo di governo in Pakistan o un conflitto militare nella Penisola Coreana potrebbero portare lo scompiglio assoluto nella regione. Le crescenti ineguaglianze e l’endemica corruzione in Cina potrebbero anch’esse alimentare disordini sociali e far sì che la sua crescita economica si arresti in maniera violenta. Ma c’è dell’altro: se un improvviso impulso democratico dovesse condurre alla destituzione del partito comunista, la Cina molto verosimilmente si troverebbe a dover affrontare un lungo periodo di transizione e d’instabilità, con un governo centrale debole e una performance economica mediocre.
2 Il capitalismo asiatico è il più dinamico
Difficile che sia così: con gli Stati Uniti messi in crisi da Wall Street, e con un’economia europea vieppiù indebolita dal suo welfare e dal suo inflessibile mercato del lavoro, la maggior parte delle economie asiatiche appare in effetti in grande forma. pertanto facile dedurre che il modello unico di capitalismo asiatico - che pare coinvolgere senza soluzione di continuità interventi strategici statali, pianificazione aziendale a lungo termine e un insopprimibile desiderio da parte della popolazione a migliorare le proprie condizioni materiali di vita - possa eccellere e superare il modello statunitense, in rovina per avidità, o la variante europea dagli orizzonti più limitati.
Tuttavia, malgrado il fatto che le economie asiatiche - con la ragguardevole eccezione del Giappone - sono tra quelle a più rapido tasso di crescita in tutto il mondo, vi sono poche prove concrete che permettano di concludere che il loro apparente dinamismo derivi effettivamente da una formula segreta di capitalismo asiatico di successo. La verità è molto più banale: il dinamismo della regione dipende in gran parte da forti presupposti di base (un alto tasso di risparmio, il processo di urbanizzazione, la componente demografica) e dai vantaggi del libero commercio, le riforme di mercato e l’integrazione economica.La relativa arretratezza asiatica è una benedizione, da un certo punto di vista: i Paesi asiatici devono crescere più rapidamente perché partono da un livello molto più basso.
Il capitalismo asiatico ha sicuramente tre peculiarità, pressoché uniche, ma che non implicano necessariamente altrettanti vantaggi dal punto di vista della competitività. Primo: gli Stati asiatici intervengono maggiormente nell’economia tramite la politica industriale, gli investimenti nelle infrastrutture e la promozione delle esportazioni, ma sarebbe un rompicapo irrisolto cercare di capire se e fino a che punto ciò abbia reso il capitalismo asiatico più dinamico. Lo studio della regione effettuato dalla Banca mondiale nel 1993, intitolato «Il miracolo dell’Asia orientale », non ha riscontrato alcuna prova attendibile in virtù della quale l’intervento strategico dello stato risulti responsabile del successo dell’Asia orientale. Secondo: il panorama imprenditoriale asiatico è caratterizzato da due tipi di aziende-conglomerato a gestione familiare e da colossi di proprietà statale. Benché essere strutture legate a grosse multinazionali consenta di fatto alle più grandi aziende asiatiche di evitare la programmazione e la gestione a breve termine caratteristica della maggior parte delle aziende americane, ciò le tutela anche nei confronti delle pressioni degli azionisti e del mercato, rendendo le società asiatiche meno vincolate a rispondere del loro operato, meno trasparenti e meno innovative.
Infine, l’alto tasso di risparmio asiatico, costituendo un ingente serbatoio di capitali locali, innegabilmente alimenta la crescita economica della regione, ma... poveri risparmiatori asiatici! La maggior parte di loro risparmia per la semplice ragione che i loro governi forniscono ammortizzatori sociali assolutamente inadeguati. Le politiche governative in Asia penalizzano i risparmiatori tramite la repressione finanziaria (mantenendo assai bassi i tassi di deposito e pagando alle famiglie risparmiatrici irrisori interessi sui loro risparmi) e ricompensano i produttori finanziandone il capitale ( di norma tramite bassi tassi di prestito bancario).Pare sopravvalutata perfino l’incentivazione delle esportazioni, presunta virtù asiatica. Le banche centrali asiatiche hanno investito la maggior parte delle loro considerevoli eccedenze delle esportazioni in asset a basso rendimento e legate al dollaro, che in ogni caso perderanno molto del loro valore a causa delle pressioni inflazionistiche a lungo termine generate dalle politiche fiscali e monetarie statunitensi.
3 L’Asia sarà alla guida del processo d’innovazione mondiale
No, non finché saremo in vita noi. Se si tiene conto soltanto del crescente numero di brevetti statunitensi rilasciati agli inventori asiatici, gli Stati Uniti risultano avere un margine in plateale recessione dal punto di vista dell’innovazione. Gli inventori sudcoreani, per esempio, nel 2008 hanno ricevuto 8.731 brevetti statunitensi contro i 13 del 1978. Nel 2008 agli inventori giapponesi sono andati quasi 37mila brevetti statunitensi. Il trend pare sufficientemente allarmante, al punto che uno studio è arrivato a collocare gli Stati Uniti all’ottavo posto della classifica mondiale dell’innovazione, alle spalle di Singapore, Corea del Sud e Svizzera.
Parafrasando Mark Twain, potremmo affermare che i necrologi relativi alla morte della leadership americana in fatto di tecnologia sono assolutamente esagerati. Anche se alcune economie asiatiche avanzate, come Giappone e Corea del Sud, stanno recuperando lo svantaggio iniziale, gli Stati Uniti restano saldamente in testa in fatto d’innovazione: nel solo 2008 i brevetti rilasciati a inventori statunitensi sono stati 92mila, pari al doppio di quelli rilasciati agli inventori giapponesi e sudcoreani considerati insieme. I due giganti asiatici, Cina e India, sono ancora parecchio indietro.
L’Asia sta investendo capitali nell’educazione superiore, ma le università asiatiche non diventeranno a breve i centri leader della cultura e della ricerca nel mondo. Nessuna delle dieci migliori università al mondo si trova in Asia e soltanto l’università di Tokyo rientra tra le prime venti. Negli ultimi trent’anni, soltanto otto asiatici - sette dei quali giapponesi - sono stati insigniti di un Premio Nobel per le materie scientifiche. La cultura gerarchica della regione, la burocrazia centralizzata, le carenti università private, l’importanza accordata all’apprendimento a memoria e al superamento di test continueranno a compromettere il tentativo di clonare le università e i centri di ricerca migliori degli Stati Uniti.
Perfino la tanto strombazzata superiorità numerica dell’Asia sembra inferiore a ciò che sembra a prima vista. Ogni anno in Cina pare che si laureino in ingegneria 600mila studenti, e in India 350mila. Gli Stati Uniti appaiono pertanto molto indietro con i loro 70mila laureati in ingegneria ogni anno. Quantunque queste cifre paiano indicare un netto vantaggio dell’Asia nella creazione di potere intellettuale, sono del tutto distorte. La metà dei laureati cinesi in ingegneria e due terzi degli indiani hanno diplomi universitari di primo livello (laurea breve). Se si tiene conto della qualità, poi, il netto vantaggio asiatico scompare del tutto. Da un famosissimo e molto citato rapporto del McKinsey Global Institute risulta che i manager per le risorse umane delle multinazionali considerano "potenziali soggetti da assumere" soltanto il 10% degli ingegneri cinesi e il 25% di quelli indiani, a fronte di un ben più rilevante 81% degli ingegneri americani.
4 La Cina dominerà l’intero Continente
Non è verosimile. La Cina è in procinto di superare il Giappone e di scippargli il titolo di seconda economia al mondo quest’anno. Essendo l’hub economico della regione, la Cina oggi è alla guida dell’integrazione economica asiatica. L’influenza diplomatica di Pechino si sta anch’essa espandendo, e si presume che ciò dipenda in buona parte dal suo soft power
di recente acquisizione. Perfino il suo esercito, un tempo obsoleto, sta acquisendo una grande quantità di nuovi sistemi di armamento, e sta significativamente migliorando le sue capacità di esercitare la forza e di darne in ogni caso l’impressione.
Quantunque sia vero che la Cina diverrà il Paese più potente dell’Asia, la sua ascesa già racchiude i propri limiti. improbabile che la Cina arrivi a dominare l’Asia sostituendosi, per esempio, agli Stati Uniti come peacekeeper nella regione o come influente protagonista nelle decisioni di politica estera degli altri Paesi. La sua crescita economica non è affatto garantita. Inquiete minoranze orientate alla secessione (tibetani e uiguri) popolano aree strategicamente importanti, che nel complesso occupano il 30% del territorio cinese. Taiwan - che è inverosimile che torni sotto l’ala cinese a breve termine - tiene praticamente paralizzate ingenti risorse militari di Pechino. Il partito comunista cinese al governo - che considera la perpetuazione dello Stato monopartitico più importante di qualsiasi espansionismo oltreoceano - non pare possa lasciarsi allettare dalle delusioni di una grandeur imperiale. La Cina, come se non bastasse, ha Paesi confinanti incredibilmente forti, quali Russia, India e Giappone, che opporranno strenua resistenza a qualsiasi tentativo di Pechino di diventare egemone nella regione. Perfino il Sud-Est asiatico, dove la Cina pare aver sperperato negli ultimi anni la maggior parte delle sue conquiste geopolitiche, è stato riluttante a cadere del tutto nell’orbita cinese. Del resto, a fronte dell’inesorabile rullo compressore cinese, gli Stati Uniti di sicuro non capitolerebbero tanto facilmente.
Per ragioni che sono e restano complesse, l’ascesa cinese ha suscitato timori e disagio tra gli asiatici, non entusiasmo. Soltanto il 10% dei giapponesi, il 21% dei sudcoreani, il 27% degli indonesiani intervistati da un sondaggio del Chicago Council on Global Affairs hanno affermato di non avere problema alcuno ad accettare la Cina come futuro leader in Asia. Un po’ poco per l’offensiva e il fascino che Pechino ambiva a destare nei suoi vicini.
5 L’America sta perdendo influenza in Cina
Assolutamente no. Impantanati in Iraq e in Afghanistan, sprofondati in una profonda recessione, gli Stati Uniti di sicuro sembrano una superpotenza in declino. La loro influenza in Asia pare effettivamente recedere in Asia, con il dollaro, un tempo valuta forte, sempre meno richiesto dello yuan cinese, e con il regime nordcoreano che sfida apertamente il volere di Washington. nondimeno prematuro dichiarare la fine della superiorità geopolitica statunitense in Asia. Con ogni probabilità, il meccanismo di autocorrezione dei suoi sistemi politici ed economici permetterà agli Stati Uniti di riprendersi dalla bastonata attuale.
La leadership dell’America in Asia si basa su molteplici punti di forza, non soltanto sulla sua diretta influenza militare o economica. Al pari della bellezza,l’influenza geopolitica di un Paese è spesso negli occhi di chi l’osserva. Benché alcuni considerino un dato di fatto il declino dell’influenza statunitense in Asia, molti asiatici la pensano in senso diametralmente opposto. Il 69% dei cinesi, il 75% degli indonesiani, il 76% dei sudcoreani e il 79% dei giapponesi ha riposto al sondaggio del Chicago Council che l’influenza statunitense in Asia nell’ultimo decennio è aumentata.
Un’altra ragione ancora, forse più importante, per considerare forte l’influenza americana in Asia è che la maggior parte dei Paesi della regione considerano volentieri Washington come garante della pace nel continente.
Le élite asiatiche, da Nuova Delhi a Tokyo, continuano a contare sullo Zio Sam perché tenga gli occhi ben aperti su Pechino.
A prescindere dal fatto che sia sopravvalutata o meno, l’Asia nei decenni a venire è destinata ad aumentare la propria influenza geopolitica ed economica. già diventata di fatto uno dei pilastri dell’ordine internazionale.Riflettendo sul futuro dell’Asia, però, cerchiamo di non mettere il carro davanti ai buoi: la sua ascesa economica non è scritta nelle stelle. Tenuto conto poi delle differenze culturali e della storia d’intensa rivalità tra i Paesi della regione, è improbabile che l’Asia possa raggiungere un livello accettabile di unità politica nella regione e sviluppare una forma d’identità simile all’Unione Europea,almeno finché saremo vivi noi. risaputo che una volta Henry Kissinger chiese: «Chi chiamo, se voglio chiamare l’Europa?». Ebbene, oggi possiamo tranquillamente porci il medesimo interrogativo al riguardo dell’Asia.
Premesso tutto ciò, l’ascesa dell’Asia presenterà più opportunità che minacce. La crescita nella regione non solo ha tolto dalla condizione di povertà assoluta centinaia di milioni di persone, ma aumenterà altresì la domanda di prodotti occidentali. Le sue incrinature interne consentiranno agliStati Uniti di tenere d’occhio l’influenza geopolitica di rivali potenziali quali Cina e Russia a costi e rischi accettabili. Non resta pertanto che auspicare che l’ascesa dell’Asia costituisca quella pressione concorrenziale di cui gli occidentali hanno grande e urgente bisogno per rimettersi in sesto come si deve,senza soccombere al bombardamento propagandistico o all’isteria.