Filippo Facci, il Giornale 09/08/2009, 9 agosto 2009
Nessuno sa dire in definitiva chi siano i black bloc o i no global, se si equivalgano, se esista un’idea, una proposta, una sigla, un leader, un portavoce, un’organizzazione che vada oltre al rovesciare cassonetti della spazzatura da diec’anni
Nessuno sa dire in definitiva chi siano i black bloc o i no global, se si equivalgano, se esista un’idea, una proposta, una sigla, un leader, un portavoce, un’organizzazione che vada oltre al rovesciare cassonetti della spazzatura da diec’anni. Poi c’è la globalizzazione, ma anche qui: non è chiaro ancora che cosa sia, e non lo si dice per gusto del paradosso. Mediando tra ogni definizione, infatti, resta l’idea che la globalizzazione sia solo la progressiva estensione a livello mondiale (globale) di processi che erano già in corso da decenni a livello locale. Prendete l’Italia e immaginate i poli produttivi per cui i filati si facevano nella tal zona, le auto nell’altra, i mobili nell’altra ancora; prendete poi le conseguenze soprattutto delle fasi iniziali e di trasformazione: scompensi di mercato, morte di artigianati locali e vendite al dettaglio, nuove ricchezze e povertà, nuovi status sociali, nuovi scenari. Accade lo stesso a livello mondiale, ma con regole che però cambiano da Paese a Paese: ecco perché i diritti umani e sindacali fanno parte del problema. Diec’anni fa ne delirava Naomi Klein e quelli là rovesciavano cassonetti. Da altrettanti ne scrive il ministro Giulio Tremonti, noto black bloc, e quelli là rovesciano cassonetti. A livello mondiale cerca di occuparsene persino il G8. E quelli là.