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 2009  luglio 08 Mercoledì calendario

LA MIA LITTLE ITALY DEL DIABETE


Uno dei cervelli americani che guida la lotta al diabete è un milanese, il cui padre, Nanni Ricordi, produsse i maggiori cantautori italiani: da Jannacci a Paoli. Camillo Ricordi, 52 anni, guida all’Università di Miami il «Diabetes Research Institute and Cell Transplant Center», che è all’avanguardia nella telescienza e coordina e riunisce un gran numero di medici italiani.
Professore, come è nato il vostro centro?
«L’idea nacque 35 anni fa da una fondazione che si ispirò al "Progetto Manhattan" per raccogliere ricercatori da ogni parte del mondo allo scopo di trovare la cura del diabete. L’istituto è stato completato nel 1994, quando arrivai dall’Università di Pittsburgh per presiederlo. Allora eravamo appena in 10 e oggi siamo oltre 200 medici».
Ciò che vi distingue è la «telescienza»: di che cosa si tratta?
«E’ un collegamento digitale fra i centri che combattono il diabete in tutto il mondo, grazie al quale team che operano in diversi Paesi e continenti possono lavorare sulle stesse immagini e gli stessi dati e le stesse cellule, eliminando così le barriere geografiche alla collaborazione scientifica».
Chi fa parte di questo grande network internazionale anti-diabete?
«Il Karolinska Institute di Stoccolma, l’Università di Edmonton in Canada e in Italia il San Raffaele e il Niguarda di Milano, oltre a sei istituti in Giappone e uno in Cina, più i centri di ricerca a Barcellona e quelli in Germania e in Svizzera. Ora stiamo lavorando a un analogo accordo con la Corea del Sud».
Nel suo team ha molti italiani, giusto?
«Sì, molti. Abbiamo Luca Inverardi, uno dei leader nell’area delle nuove cellule, Luigi Meneghini, che dirige tutti i programmi di educazione dei pazienti diabetici, Alberto Pugliese, responsabile per i programmi di immunomodulazione e immunosoppressione, Antonello Pileggi, che dirige i modelli sperimentali sui quali vengono testate le nuove idee. E molti altri ancora».
Insomma, è quasi una cittadella della scienza italiana...
«Abbastanza. E’ un polo che attira molti italiani, perché nel nostro Paese, storicamente, è molto forte per la ricerca sul diabete. Fra i migliori ricercatori a livello internazionale vi sono diversi italiani».
Perchè?
«Per la presenza di grandi scuole, da Pozzi a Crepaldi fino a Brunetti. L’Italia, soprattutto la Sardegna, ha una delle indicidenze di diabete più alte in tutta Europa e nel mondo. Negli Stati Uniti è difficile trovare ricercatori che si impegnino a fondo nella lotta ad una malattia particolare, perchè ciò che prevale sono gli aspetti professionali: si fa il medico come se si facesse l’avvocato o il banchiere. E’ per questo che in America vi sono molti ricercatori italiani in posizioni di grande rilievo e non soltanto nel campo del diabete. Penso ad esempio alla lotta al cancro e alle malattie cardiovascolari».
Perchè tanti medici italiani continuano a lasciare il Paese di nascita?
«Per il semplice fatto che l’Italia crea forza lavoro altamente specializzata, ma poi non supporta la ricerca con investimenti. Il risultato è che l’Italia produce manodopera di qualità gratuita per altre nazioni che ne sfruttano i potenziali intellettuali».
Come spiega tale contraddizione?
«Con una mancanza di pianificazione. Basta vedere cosa sta avvenendo in Estremo Oriente: da Singapore alla Corea del Sud tutti stanno investendo pesamentemente, miliardi di euro, per creare tecnologia: sono le nuove "biopolis", capaci di generare nuove tecniche di medicine rigenerativa. Ebbene, questi Paesi acquistano forza lavoro di prim’ordine da altre nazioni, come l’Italia, dove i neolaureati non hanno sbocco. Da noi mancano investimenti su biotecnologie e città della scienze create pensando a quali possono essere i ritorni economici nel lungo termine».
Ciò che funziona, invece, in Italia è la formazione...
«Sì siamo molto competitivi».
Lei viene dalla famiglia Ricordi, che ha legato il proprio nome all’industria dei dischi. Perché ha abbandonato la musica per la medicina?
«Sono la pecora nera della famiglia. Sono stato il primo a tradire il mondo della musica: fino a mio padre Carlo Emanuele, detto Nanni, tutti si erano occupati di musica nei 200 anni precedenti, a cominciare dal fondatore, Giovanni, che introdusse la stampa della musica in Italia».
Che cosa hanno in comune la musica e la medicina?
«Hanno molto. Da tempi antichissimi si sono riconosciuti alla musica effetti terapeutici, ma soltanto in tempi recenti abbiamo scoperto la complessità degli impatti biologici dei suoni, soprattutto nel caso di malattie neurodegenerative».