Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  luglio 08 Mercoledì calendario

IL BANCHIERE GOTTI TEDESCHI: MERITA IL NOBEL PER L’ECONOMIA


ROMA – Ettore Gotti Tedeschi, Bene­detto XVI parla della crisi mondiale co­me opportunità di cambiare. Lei è com­mentatore dell’«Osservatore romano», economista e rappresentante di uno dei maggiori gruppi bancari al mondo. Come ha accolto queste parole?

«Le ho accolte ’professionalmente’, da economista, non solo da cattolico più o meno moralista. Credo che l’opportuni­tà non sia solo di rivedere le regole e i problemi di governance, ma proprio la capacità dello strumento economico di realizzare i suoi maggiori scopi che so­no: usare le risorse disponibili in natura con la maggior cura ed efficienza; assicu­rare la più opportuna ed equilibrata cre­scita economica che permetta un vero globale benessere per l’uomo; assicurare la distribuzione di questo benessere a tut­ti gli uomini. Questi tre scopi sono stati conseguiti? Non credo. Molte risorse so­no state sprecate, la crescita economica si è rivelata in gran parte fittizia ed illuso­ria, il benessere non è stato esteso a tutti, anche se era possibile farlo. Mi pare evi­dente che sia il momento di domandarci se anziché immaginare nuovi espedienti o studiare nuove bolle,non valga la pena riflettere, come ci invita a fare il Papa. Nessuno come lui ha chiarito cosa l’uo­mo economico deve fare per l’economia: applicare le leggi dell’economia e non ag­girarle. Mi permetta una battuta: gli do­vrebbero dare il Nobel per l’economia».

Sulla crisi finanziaria quali sono dif­ferenze tra il Papa e gli analisti?

«La differenza è sostanziale. La mag­gior parte degli analisti, degnissimi e bra­vissimi, ha affrontato la crisi analizzan­do le conseguenze della vera origine e la loro mala gestione. Certo c’è stata espan­sione monetaria esagerata, espansione del credito, crescita consumistica a debi­to, creazione di leve finanziarie. Ma per­ché? Per fronteggiare quale problema? Potremmo formulare mille domande co­me questa e arrivare sempre ad un solo principio originale: si doveva surrogare in mille modi alla insufficiente crescita economica dovuta al crollo della natalità nei paesi sviluppati (anche se in modo differenziato tra Stati Uniti ed Europa) e le sue conseguenze (crescita dei costi fis­si, crescita delle tasse, diminuzione del ri­sparmio e degli assets finanziari...). Ma molti analisti hanno preferito non appro­fondire l’origine ’originale’ della crisi. Toccare il tema della natalità è un tabù, c’è una forma di negazionismo. E’ un te­ma connotato ’morale’, perciò non scientifico, quasi stupido, per fanatici re­ligiosi. Così lo si è ignorato, e lo si conti­nua ad ignorare. Vedrete come questo problema esploderà presto. Non è la fi­nanza che non ha funzionato, non è stata solo l’avidità di pochi ad aver causato una crisi così complessa e lontana nelle origini. L’avidità di pochi sembra persi­no esser stata una ’concessione’ al fine di ’tentare anche quella strada’ , per pro­durre una crescita economica sempre più difficilmente sostenibile».

La deregolamentazione del lavoro ri­schia di condurre le persone al «degra­do umano», dice il Papa.

«Nel mondo globale, per varie ragioni, l’uomo, dal punto di vista economico, è progressivamente diventato ’un mezzo’ di crescita economica, in quanto lavora­tore, consumatore, risparmiatore. Ma queste sue tre dimensioni fra loro sono in conflitto e quando il conflitto esplode, in momenti di minor crescita economi­ca, l’uomo rischia quello che viene defini­to nell’Enciclica ’degrado umano’. La di­mensione dell’uomo lavoratore, che gra­zie al suo lavoro consuma e investe i suoi risparmi, è pregiudicata, attenzio­ne, proprio da ciò che consuma e da do­ve investe i suoi risparmi. Paradossal­mente, cercando il proprio interesse di consumatore, può consumare beni con­correnti con quelli che gli danno lavoro e può investire in imprese concorrenti con quella dove lavora. Questo è il mercato globale che impone ai capitali di investi­re dove sono più remunerati, che impo­ne di consumare ciò che è più convenien­te. Ma conseguentemente di andare a cer­care lavoro dove si crea. E qui nasce il problema. Dove si crea e si creerà il lavo­ro nel mondo globale? La migrazione isti­tuzionalizzata, segmentata per professio­nalità ed aree geografiche, sembra una prospettiva evidente, ma è anche ’il be­ne dell’uomo’?».

Per l’Enciclica il mercato non funzio­na senza regole di solidarietà e di fidu­cia. E’ così anche nella sua esperienza?

«La fiducia è la risorsa più scarsa in na­tura ed è la più preziosa perché assicure­rebbe vantaggi unici su tutti i mercati. Ma la fiducia non si acquisisce o conqui­sta con studi di mercato o con ’codici eti­ci’ affissi agli ingressi, si conquista con il comportamento che è solo e sempre indi­viduale, non è collettivo, nè per legge, nè per regolamento. L’etica è anch’essa individuale, non si impone per legge, non si impara all’università, si vive, e si applica solo se ci si crede, e ci si crede se si pensa sia utile e sia bene. Il comporta­mento etico è quello che produce la fa­mosa fiducia. Questa enciclica si fonda sugli stessi principi delle altre, di una Re­rum novarum, di una Populorum pro­gressio, di una Centesimus Annus e ha in sè la stessa dottrina dell’enciclica che ver­rà scritta nel 2100 sull’economia globale dominata dall’Asia».