Roberto Gramiccia, Liberazione 07/07/2009, 7 luglio 2009
Ungaretti la definiva "una gatta siamese" per l’eleganza felina, De Chirico "l’amazzone delle croste" per i suoi gusti pittorici; fra attestati di stima incondizionati e critiche sprezzanti (venate di invidia), Palma Bucarelli per più di trenta anni (dal 1942 al 1975) ha svolto il ruolo, non solo di direttrice e sovrintendente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ma anche di arbitro assoluto e di nume tutelare dell’arte contemporanea italiana
Ungaretti la definiva "una gatta siamese" per l’eleganza felina, De Chirico "l’amazzone delle croste" per i suoi gusti pittorici; fra attestati di stima incondizionati e critiche sprezzanti (venate di invidia), Palma Bucarelli per più di trenta anni (dal 1942 al 1975) ha svolto il ruolo, non solo di direttrice e sovrintendente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ma anche di arbitro assoluto e di nume tutelare dell’arte contemporanea italiana. Ruolo e funzione dominanti, esercitati potendo godere di una stima internazionale che fu per lei titolo di vanto ma che - ed è questo il merito più grande che le va riconosciuto - fornirono all’arte italiana una occasione unica per sprovincializzarsi. E’ per queste ragioni incontestabili che la figura di Palma Bucarelli può essere accostata a quelle delle grandi donne dell’arte contemporanea internazionale del secolo scorso, come Peggy Guggenheim e Ileana Sonnabend. Con il valore aggiunto di un fascino personale che ne fecero una macchina da guerra di irresistibile grazia, una virago capace di diffondere attorno profumi di seduzione ma anche autorevolezza intellettuale e manageriale. Palma Bucarelli fu una specie di ossimoro vivente, in grado di mettere d’accordo potenza di comando e femminilità, una miscela chimica (a ph acido secondo alcuni) che dominava su tutto e su tutti, potendo esibire una cultura sconfinata e insieme il sostegno armato (intellettualmente armato) di alcune personalità alle quali fu legata da affinità elettiva, primo fra tutti Giulio Carlo Argan. Ad un anno dal centenario della nascita e ad 11 anni dalla morte, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna la celebra, dal 26 giugno, con una grande mostra dal titolo Palma Bucarelli. Il museo come avanguardia , visitabile fino al 1 novembre e curata da Mariastella Margozzi. In mostra: circa duecento opere che si stagliano su uno sfondo "rosa Bucarelli", col quale dialogano gli abiti originali del suo guardaroba, affiancati da gigantografie che riproducono le atmosfere del tempo, mentre un sottofondo di musiche d’epoca ricompone un insieme unitario che sarebbe piaciuto alla tanto amata ( temuta e pignolissima) direttrice. Il percorso espositivo si distende per sezioni tematiche che comprendono opere del ’44 -’45 di prima qualità, firmate da De Pisis, Scipione, Pirandello, Mafai, Mirko, Afro e Mazzacurati; oltre alla selezione di scultori degli anni ’50 e ’60 con Carrino, Colla, Fontana e Lo Savio, Lorenzetti, Leoncillo, Mattiacci, Melotti, Uncini e a quella degli artisti "cinetici" come Alviani, Mari, Schoeffer, Le Parc; fino ai classici Morandi, Modigliani, Mondrian, Pollock e alla sintesi del riordinamento dell’arte italiana del ’69 con Burri, Fontana, Capogrossi, Novelli, Pascali, Accardi, Twombly, Rotella, Festa, Schifano. Insomma, un’occasione unica per chi voglia, senza troppa fatica, spaziare negli ambiti vastissimi delle preferenze estetiche di quella che fu un’intellettuale di prima grandezza. Quando parliamo di preferenze, intendiamo sottolineare il primato che l’Informale e l’Arte astratta ebbe nelle gerarchie di valore accreditate dalla Bucarelli. De Chirico non la amava perché la Metafisica, di cui si sentiva giustamente padre, nonostante la sua indubbia importanza internazionale, non era al centro delle sue preferenze. Neanche Guttuso, insieme a tutta la figurazione postcubista e a quella che fu, poi, la Nuova Figurazione fu immune da discriminazioni e, per anni, l’opzione realista fu considerata del tutto marginale. Se pensate che Umberto Terracini, nel ’59, fece un’interrogazione parlamentare per censurare il Grande sacco di Burri, avrete una misura della temperie di quei tempi terribili e meravigliosi. Anche meravigliosi, certamente, perché - consentitemelo - l’immagine del grande comunista, padre costituente, dall’oratoria forbita e classicheggiante, che dagli scranni del Parlamento si alza e interviene per esprimere un giudizio su un’opera di arte contemporanea, ci riempie di emozione. Non importa molto che avesse torto. Il fatto è che, allora, la politica era un’altra cosa. I comunisti erano in grado di fare egemonia - per assurdo - anche quando sbagliavano. In quel caso, l’errore fu grande davvero perché Burri era già il migliore e non ci fa velo - riconoscendolo - il sapere del livore anticomunista che quell’artista dimostrò per tutta la vita. La Bucarelli, naturalmente, era dalla parte di Burri, come fu dalla parte di Manzoni quando in tribunale, nel ’70, si trattò di difendere la sua "Merda d’artista". A questa donna chic e vanitosa non mancò il coraggio e la determinazione. Ce ne fossero di donne e uomini come lei, anche con più asperità caratteriali delle sue, a difendere i tesori pubblici che sono custoditi nei nostri musei, così come negli ospedali, nelle scuole e nelle università. Lei fu capace di difendere e arricchire la collezione permanente della Galleria, nonostante i pochi fondi a disposizione. Fece i salti mortali per acquisire l’ Arlesiana di Van Gogh. Ma quando si trattò di mettere al riparo della guerra i capolavori del suo Museo non ebbe esitazione ad assumersi la responsabilità di trasferirli fra Palazzo Farnese di Caprarola e Castel Sant’angelo, trasportandoveli di nascosto e con mezzi di fortuna. Come dimenticare, poi, le grandi mostre storiche: Picasso nel ’53, Mondrian nel ’56 e Pollock nel ’58. Tre architravi. Nel ’55 l’esposizione Arte italiana contemporanea fu per lei una consacrazione nazionale che diventò internazionale con la retrospettiva d’arte americana del ’57, organizzata con la collaborazione del Guggenheim di New York. Ma nonostante queste prestigiosissime e sontuose interlocuzioni, la Bucarelli fu sempre attenta a smarcarsi dalle seduzioni del mercato, salvaguardando l’autonomia dell’istituzione pubblica che era orgogliosa di dirigere. Ai nevrotici estimatori del liberismo più sfrenato di oggi, utilizzando l’esempio fornito da Palma Bucarelli, vorremmo chiedere: come mai la nostra galleria nazionale ha avuto il suo massimo prestigio internazionale in tempi in cui si parlava molto poco di mercato e tanto di cultura? Come mai questo è potuto accadere a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, molto prima del boom economico e in una situazione di obiettiva scarsità di mezzi? I mezzi erano scarsi ma l’arte italiana ha conosciuto in quei due-tre decenni successi di straordinaria portata. Di questi successi Palma Bucarelli non ha certo un merito esclusivo. Il merito principale fu quello di alcune decine di artisti straordinari che non pensavano che l’opera più bella fosse quella che costava di più. Palma Bucarelli fu solo una loro alleata naturale, illuminata e capace. Tanto entusiasmo, tanta consapevole e giustificata autostima avrebbe in una donna comune potuto scatenare chiusure snobistiche ed elitarie e, invece, anche in questo la spavalda direttrice fu diversa. Per la prima volta il suo museo si aprì al pubblico non trascurando un’impostazione seriamente divulgativa e didattica. Fra i tanti meriti Palma Bucarelli aveva anche questo: non credeva che l’arte contemporanea fosse un bene esclusivo, riservato a poche anime belle.