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 2009  luglio 08 Mercoledì calendario

TRUMAN

Capote vive in una grande casa gialla a Brooklyn Heights, che è stata recentemente ristrutturata con il gusto e l’eleganza che in genere caratterizza tutto ciò di cui si occupa. Quando sono entrata l’ho trovato intento a esaminare una cassa appena arrivata che conteneva un leone di legno. ”Ecco!”, ha esclamato mentre lo faceva nascere da una massa di segatura e riccioli di legno. ”Ha mai visto una cosa tanto splendida? Io l’ho visto e l’ho comprato. Adesso è tutto mio.”
’ grande”, ho detto. ”Dove lo metterà?”
’Ma nel camino, naturalmente”, ha risposto Capote.
’Adesso venga in salotto mentre provvedo a far pulire questo casino.”
Il salotto è in stile vittoriano e contiene la collezione più intima di oggetti d’arte e tesori personali di Capote, che nel modo in cui sono esposti ordinatamente su tavoli lucidati e scaffali di bambù ricordano il contenuto delle tasche di un bambino molto astuto..
Capote stesso si intona benissimo con questa impressione a
prima vista. piccolo e biondo, con un boccolo che insiste a cadergli sugli occhi; e il suo sorriso è improvviso e solare. Il suo approccio a qualcuno che non conosce è di aperta curiosità e di amicizia.
Era sicuro di voler diventare uno scrittore?

«Mi rendevo conto che volevo essere uno scrittore, ma non fui sicuro che lo sarei diventato fino all’età di circa quindici anni. All’epoca avevo cominciato a inviare senza modestia i miei racconti a riviste e periodici letterari. Naturalmente nessuno scrittore si scorda la prima risposta positiva, ma un giorno a diciassette anni io ottenni la prima, la seconda e le terza tutte nella stessa mattinata. Mi creda, dire che ero eccitato è un eufemismo!».
Cosa scriveva all’inizio?

«Racconti. Le mie ambizioni più incontrollabili ruotano ancora intorno a questa forma. Se la si esplora a fondo, la forma del racconto mi sembra la forma più difficile e più disciplinante di prosa. Tutto il controllo e la tecnica che ho acquisito li devo interamente all’esercizio fatto con questo mezzo».
Come si fa ad arrivare alla perfetta tecnica del racconto?

«Poiché ogni racconto presenta i propri problemi tecnici, ovviamente non si possono generalizzare le regole fornendo un’equazione del tipo due per due uguale quattro. Trovare la forma giusta per un racconto vuol dire semplicemente scoprire il modo più naturale di scriverlo. La prova per capire se uno scrittore ha sublimato la forma naturale del suo racconto è questa: dopo averlo letto, bisogna capire se lo si può immaginare diversamente, o se l’immaginazione ne esce ammutolita e sembra definitivo e completo. Proprio come è completa un’arancia, che la natura ha fatto proprio nel modo giusto».
Ci sono trucchi che si possono usare per migliorare la propria tecnica?

«Lavorare è l’unico trucco che conosco. La scrittura ha leggi di prospettiva, di luci e di ombre, proprio come la pittura o la musica. Se si conoscono dalla nascita, bene. Altrimenti bisogna impararle. Poi si possono anche sistemare a seconda dei propri gusti. Perfino Joyce, il nostro discolo più estremo, era un grande artigiano; ha potuto scrivere l’Ulisse perché era stato capace di scrivere Gente di Dublino. Troppi scrittori sembrano considerare lo scrivere racconti come un esercizio per sgranchirsi le dita. In questi casi stanno usando sicuramente solo le dita...».
Quali scrittori l’hanno influenzata maggiormente?

«(…) Non penso che uno scrittore abbia molte possibilità di imporsi in un film a meno che non lavori nel più stretto rapporto col regista o sia lui stesso il regista. Il cinema ha sviluppato un solo scrittore che, lavorando esclusivamente come sceneggiatore, si può definire un genio cinematografico. Sto parlando di quel contadino timido di Zavattini. Che senso visivo! L’ottanta per cento dei film italiani di qualità è stato costruito da una sceneggiatura di Zavattini – tutti i film di De Sica, per esempio. De Sica è un uomo affascinante, una persona dotata e profondamente sofisticata; nonostante ciò è per la maggior parte un megafono di Zavattini, i suoi film sono creazioni assolute di Zavattini: ogni sfumatura, emozione, ogni parte è chiaramente indicata nei copioni di Zavattini».
Lei sembra distinguere tra scrittori che sono stilisti e scrittori che non lo sono. Quali scrittori definirebbe stilisti e quali no?

«Che cos’è lo stile? ”E qual è”, chiede il koan zen, ”il suono di una mano sola?” Nessuno lo sa veramente; ma o lo si sa o no. Per quanto riguarda me, se mi permette l’immagine alquanto banale, suppongo che lo stile sia lo specchio della sensibilità di uno scrittore – più che il contenuto del suo lavoro. Da un certo punto di vista tutti gli scrittori hanno uno stile – Ronald Firbank, che Dio lo benedica, aveva poco altro e grazie a Dio se ne rendeva conto. Ma l’avere stile, uno stile proprio, spesso è un impedimento, una forza negativa, non una forza come dovrebbe essere e com’è, per esempio, per E.M. Forster, Colette, Flaubert, Mark Twain, Hemingway e Isak Dinesen. Dreiser, per esempio, ha uno stile – ma, mon Dieu! Così Eugene O’Neill. E Faulkner, per quanto brillante fosse. Mi sembrano tutti dei trionfi su degli stili forti ma negativi, stili che non aggiungono niente alla comunicazione tra lettore e scrittore. Poi ci sono gli stilisti senza stile – cosa molto difficile, molto ammirevole e sempre molto popolare: Graham Greene, Maugham, Thornton Wilder, John Hersey, Willa Carter, Thurber, Sartre (si ricordi che non stiamo discutendo del contenuto), J.P. Marquand e così via. Sì, comunque esistono anche i non-stilisti. Solo che non sono scrittori, sono dattilografi. Dattilografi sudati che anneriscono chili di carta con messaggi senza forma, suono o immagine».
Uno scrittore può imparare lo stile?

«No, non penso che si possa arrivare consciamente allo stile, almeno nella stessa misura in cui possiamo decidere il colore dei nostri occhi. Dopo tutto lo stile è la persona stessa. Alla fine la personalità dello scrittore ha moltissimo a che fare con il suo lavoro. La personalità deve essere umanamente presente. ”Personalità” è una parola ormai svalutata, lo so, ma rende bene quello che voglio dire. L’umanità individuale dello scrittore, le sue parole o i suoi gesti nel mondo, devono sembrare un personaggio che cerca un contatto con il lettore. Se la personalità è vaga o confusa o solamente letteraria, ça ne va pas. Faulkner e McCullers proiettano istantaneamente le loro personalità».
© 2009, Fandango Libri
per gentile concessione
di The Wylie Agency Ltd