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 2009  luglio 08 Mercoledì calendario

Il conduttore della diretta televisiva è un giornalista di lungo corso. Ci tiene a farmi sapere che ha letto tutti e cinque i libri e a riprova me ne porge uno aperto, invitandomi a leggere l’attacco del paragrafo

Il conduttore della diretta televisiva è un giornalista di lungo corso. Ci tiene a farmi sapere che ha letto tutti e cinque i libri e a riprova me ne porge uno aperto, invitandomi a leggere l’attacco del paragrafo. «A Garlasco, in provincia di Pavia, il cadavere di Chiara Poggi, una giovane di 26 anni, viene ritrovato privo di vita». Il cadavere privo di vita? Sì, ho letto bene. Confesso che il truismo mi era sfuggito. Va ad aggiungersi a una lunga lista di refusi, periodi zoppicanti, goffi accostamenti verbali da segnalare in vista delle anche perciò augurabili ristampe. Opere finaliste o escluse, pubblicate da piccoli o grandi editori: ormai è evidente che correttori di bozze approssimativi e editor frettolosi non guardano in faccia a nessuno. Sarebbe auspicabile che a un premio letterario rinomato giungessero solo buoni libri in una veste editoriale decente. Invece è come assistere alla serata finale di Miss Italia e scoprire che una ragazza ha il rimmel che le cola lungo la guancia e un’altra claudica sopra un tacco rotto. Allora ecco qui un campionario minimo di strafalcioni a stampa. Posto che la salma di cui sopra è a p. 131 del romanzo di Antonio Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo (Bompiani), un altro autore infila una serie tremendamente cacofonica di allitterazioni per raccontarci che a un uomo d’affari l’eccessiva spregiudicatezza «era costata una catasta di protesti» (Ugo Barbàra, In terra consacrata, Piemme, p. 221). Che dire poi del protagonista del noir di Massimo Lugli, L’istinto del lupo (Newton Compton), che decide di prendere in prestito «una macchina parcheggiata vicino al paese più vicino» (p. 191)? D’accordo, le ripetizioni per chi scrive sono spesso un terrore tanto infondato quanto ancestrale, ma qui avverbio e aggettivo sembrano davvero troppo… vicini. Poche pagine prima viene descritto un violento corpo a corpo: «Mentre cadeva imprecando lo centrò con uno dei suoi terribili calci in faccia» (p. 149). Attenzione a non immaginarvi la scena sbagliata: come si capisce delle parole seguenti, il soggetto della subordinata è diverso da quello della principale, perciò è chi cade che riceve il calcio dell’avversario, non viceversa. La lotta non ha nulla di acrobatico, è solo pura volontà di mettere fuori causa l’altro. Cambiamo libro e risolleviamoci il morale con un po’ di lirismo: «Ad ogni figlio la vita come un incendio si mangia la boscaglia, si spingeva un po’ più in là, sempre più lontana la guerra, e gli anni difficili delle agitazioni contadine, ormai la vita sempre più lontana dalla vita» (Filippo Bologna, Come ho perso la guerra, Fandango, p. 71). Bello, ma che mi significa? direbbe il rude Montalbano. Vale la pena ripetere un concetto: non gettate la croce sugli autori, che hanno compiuto tre quarti del loro dovere nell’attimo esatto in cui consegnano il dattiloscritto. E poi si sa, anche Omero di tanto in tanto sonnecchia. Se l’editoria libraria piange, la stampa quotidiana non ride. Chi domenica avesse letto il supplemento culturale del Sole 24ore saprebbe che l’editore milanese Grazianti (sic!) ha recentemente pubblicato un romanzo di Libia Graverà. Nome come tanti diffusi in Italia dopo l’avventura coloniale e cognome francamente bizzarro, che nell’insieme suonano come un monito a non sottovalutare i rapporti con Gheddafi. Per fortuna ci soccorre l’occhiello, dove apprendiamo che in realtà si tratta dell’ultima fatica di Lidia Ravera. Ma tutto l’articolo è un esempio esilarante di ermeneutica patafisica: «tornerà a casa dopo l’aborto spontaneo della madre, che ha perso un mischiato» (restiamo col dubbio che voglia dire semplicemente un maschio). Grandioso il finale, da gustare senza commenti: « il celo (riscuotesissimo) il traguardo raggiunto, magari suo malgrado, dalla scrittrice: e vuoi essere, il nostro, un apprezzamento sincero». Dimenticavo, il titolo della rubrica di recensioni è anch’esso un ircocervo del significante, una chimera del significato: NarrItalia. In questo caso temo però sia voluto.