Vittorio Emanuele Parsi, La stampa 7/7/2009, 7 luglio 2009
LA BUSSOLA IMPAZZITA DI PECHINO
Secondo le stesse fonti di polizia cinesi, sono 156 i morti sinora accertati dei violentissimi scontri scoppiati nello Xin Jiang, proprio mentre il presidente Hu Jintao arrivava in Italia alla testa di una nutrita delegazione di circa 300 imprenditori. E’ un colpo pesante sulla politica cinese di mostrarsi con il volto rassicurante del capitalismo che non vacilla di fronte alla grande crisi, e che forse, anzi, salverà l’economia mondiale dalle prospettive di tracollo, grazie ai propri tassi di crescita comunque siderali. Al di là dell’evidente dimensione tragica della notizia, delle vite spezzate, è evidente che quanto sta accadendo agli estremi confini occidentali della Cina danneggia tutti. Danneggia innanzitutto gli uiguri, che altrettanto testardamente ma meno irenicamente degli ex sudditi del Dalai Lama, non ci stanno a divenire minoranza in casa propria. Ancora in agosto, a pochi giorni delle Olimpiadi, mentre l’attenzione del mondo convergeva sulle strade di Lhasa, una serie di attentati aveva scosso lo Xin Jiang, dove da decenni continua la resistenza degli 8 milioni di uiguri (di etnia turca e religione musulmana) all’offensiva assimilazionista di Pechino. Pechino accusa gli uiguri ribelli di essere ispirati da Bin Laden e dai suoi sodali. Ci sarebbe da stupirsi se una qualche infiltrazione qaedista o islamista radicale non si fosse verificata nella regione negli ultimi dieci anni, a fronte della politica cinese orientata alla pura e semplice repressione.
Anche la Cina ne esce parecchio male. Colpisce del gigante economico e politico cinese l’incapacità a ogni variazione rispetto al tema della repressione spietata quando si tratti di dover gestire il dissenso. Se quelli dello Xin Jiang ricordano i moti del Tibet dello sorso anno, in quanto a motivazioni etnico-identitarie, per numero di vittime sono i più gravi (almeno tra quelli di cui si è avuto notizia in Occidente) dalla strage di piazza Tien An Men nel 1989.
La Cina è un Paese dallo straordinario passato e dalle grandi prospettive. Eppure sembra che la sua classe dirigente non si renda conto che per completare l’opera, per fare di quel futuro qualcosa di più di una promessa, occorra anche sottoporre il sistema politico a una trasformazione - altrettanto radicale, non brusca, ma rapida - di quella che ha fatto diventare l’economia cinese la quarta del pianeta. Si tratta della stessa classe dirigente che in così poco tempo (tre decenni) ha fatto così tanto per portare fuori l’«impero di mezzo» dalla condizione disastrosa in cui l’avevano cacciata gli appetiti delle potenze europee, l’invasione giapponese, la guerra civile e la criminale dittatura maoista. Una classe dirigente che è riuscita nell’impresa, per nulla scontata, di gestire in maniera tutto sommata ordinata ben tre ricambi generazionali, dopo quello di Deng Xiao Ping. E che ora appare invece incapace di uno sforzo altrettanto lungimirante di quello del vecchio capo comunista.
Ma quel che sta accadendo in Xin Jiang, frustra anche le speranze e i desideri occidentali di poter guardare alla Cina solo come a un grande partner economico e finanziario, e un promettente socio politico nella gestione di quel mondo «post-moderno» di cui, soprattutto in Europa, amiamo favoleggiare. Il governo cinese si muove con grande sagacia economica e con salda lungimiranza strategica, ma la sua bussola è ancora orientata a una politica il cui polo magnetico è costituito da un nazionalismo molto assertivo. Di questo occorre essere consapevoli, e proprio per questo, gli inviti ad allargare alla Cina il G8 (il vecchio club delle grandi economie democratiche alleate degli Stati Uniti più la Russia) appaiono oggi più che mai improvvidi.
Il concetto cinese di «armonia» che tanto affascina molti osservatori occidentali assomiglia terribilmente a quello occidentale di «egemonia», un po’ più ipocrita, un po’ più violento. Ai leader delle sette democrazie del G8, in questi giorni, toccherà un compito ingrato in più, di cui avrebbero fatto volentieri a meno: assumere una posizione che non umilii il governo ed il popolo cinesi ma che, allo stesso tempo, non svillaneggi neppure i principi da cui le democrazie liberali e i loro cittadini traggono la propria ispirazione. E, inutile negarlo, tutti gli occhi saranno puntati sul presidente Obama: perché è il leader democratico che ha ridato al mondo intero il gusto e la sfida della speranza, e perché è il presidente di un Paese il cui debito pubblico è in gran parte custodito nei forzieri della People’s Bank of China.