Mimmo Càndito, La stampa 7/7/2009, 7 luglio 2009
L’UOMO CHE PERSE IL VIETNAM
Fu l’uomo del Vietnam, Robert McNamara, cioè l’uomo della guerra che - sulle ultime macerie di un colonialismo ormai esausto - fu ingaggiata per fermare l’espansione comunista nelle paludi dell’Asia, ma precipitando alla fine nei miasmi ingannevoli di quelle paludi, insieme con i tormenti del colonnello Kurtz, anche tutte le illusioni di potenza, tutti gli idealismi veri e falsi, e tutti gli errori narcisistici, che ancora segnano il profondo dell’anima dell’America. Quella sconfitta militare pesò sulla sua vita, e sulla vita del suo Paese, con un trauma che soltanto l’11 settembre di Al Qaeda è riuscito in qualche modo a spingere in un angolo ormai d’ombra; però quegli anni, dal ”61 al ”68, in cui sedette sulla poltrona del Pentagono, furono anche anni che cambiarono la storia del mondo, dalla felice ma breve invenzione della pace possibile del presidente Kennedy, nel tempo della Nuova Frontiera, alla strategia militarista che travolse poi Johnson e il suo breve regno in una confrontazione ormai a tutto campo con la vecchia Urss ingessata nella lotta di potere dentro il Cremlino.
Nessun ministro della Difesa, nella storia degli Stati Uniti, ha mai occupato più a lungo di McNamara la guida del Pentagono, e nessuno ha inciso più di lui nel definire le politiche militari di un’epoca dove la vecchia Teoria del Domino doveva piegarsi alle spinte che le guerriglie in ogni angolo del pianeta portavano a rompere gli equilibri tradizionali del potere, sconfiggendo dietro le bandiere della «Lotta di liberazione nazionale» le rigide strategie delle forze armate che l’esperienza massiccia della Seconda guerra mondiale aveva impostato sullo schema dell’«attacco massiccio e travolgente». Tecnocrate prestato agli eserciti - era stato scelto da Kennedy appena cinque settimane dopo ch’era stato nominato presidente della Ford, primo manager esterno alla famiglia - portò dentro il Pentagono un’autentica rivoluzione, riducendo la forte capacità di condizionamento che gli stati maggiori sapevano esercitare sul potere politico e attivando un conflitto costante, anche se mai esplicito, con i vecchi generali d’ogni arma. E l’unificazione di struttura di comando che impose alle tre armi - esercito, marina, aviazione - stava all’interno di questa sua presa diretta, basata su una cultura da manager più che da uomo della politica.
Ma le decisioni che gli toccò assumere andavano ben oltre una struttura aziendale, e comportavano la vita e la morte di migliaia di uomini, anche di interi popoli. Tuttavia, fin che sedette al Pentagono, questa dimensione drammatica non apparve mai evidente, nemmeno nei reportage che il «New York Times» e «Time» gli dedicavano raccontando una guerra senza fine; dopo le sue dimissioni, però - e si volle che fosse stato lo stesso presidente Johnson a chiedergliele - a poco a poco la ricaduta di quel terrificante bilancio di vite umane parve pesargli addosso come uno strappo insopportabile di coscienza, che le pagine della sua autobiografia («In Retrospect») rivelano più tardi tra righe e parole dense di ripensamenti, di amarezze, di confessioni tratte dal fondo dell’animo. In qualche modo, tentò di liberarsi del macigno che quei 50 mila nomi incisi sul marmo di Washington e quel milione di morti perduti nelle giungle del Vietnam gli facevano gravare sulla memoria, non solo quella pubblica; e parve tentare anche di costruirsi un nuovo profilo di oppositore del conflitto in Vietnam. Sono poi le stesse parole amare, la stessa emozionata testimonianza che rese in un film-confessione (The Fog of War) di drammatica intensità e sincerità, un uomo che dimentica la cinepresa che ha di fronte e si misura soltanto con il proprio cuore e la propria coscienza.
McNamara è stato l’uomo della guerra, forse anche al di là della sua stessa volontà; e lo è stato in due storie che hanno cambiato il corso degli avvenimenti mondiali. La prima fu la crisi dei missili, nell’ottobre dell’82, quando il mondo fu soltanto a un passo dall’olocausto nucleare; e furono la sua determinazione, e la sua intelligenza tattica, a guidare le mosse di Kennedy sulla scacchiera dove con Krusciov (e con Castro deluso spettatore) si stava giocando la morte del pianeta. La seconda storia fu l’incidente del Golfo del Tonchino, che fece «scalare» la guerra in Indocina dietro la notizia di una presunta aggressione vietnamita a un vascello militare americano: e qui McNamara svolse lo stesso ruolo che più tardi avrebbe avuto Colin Powell nel lancio dell’attacco a Saddam Hussein, facendosi garante di prove che - né nel Tonchino né nei deserti iracheni - erano mai esistite.
McNamara chiuse la sua carriera pubblica come presidente della Banca Mondiale. E anche qui portò un nuovo spirito, la ricerca di un nuovo orizzonte possibile, con il lancio della guerra alla povertà. Disse un giorno: «Ormai vediamo il nostro pianeta come una nave spaziale. Ma non dimentichiamoci che un quarto dei passeggeri viaggia in classe di lusso, mentre gli altri tre quarti affollano la stiva; e questo non contribuisce a fare di una nave un luogo felice, nello spazio o altrove». Sono parole di un uomo potente per i potenti del G8 di domani, e furono pronunciate più di 20, inutili, anni fa.