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 2009  luglio 07 Martedì calendario

SE LA GUERRA PREPARA LA PACE


 in corso in queste ore una formidabile battaglia nella valle afghana di Helmand, a sud di Kabul. 4000 marines americani e 650 soldati afghani, al comando del colonnello Eric Mellenger della II brigata marines, provano a stanare le milizie talebane dalle loro basi operative da cui impongono la legge islamica sharia e il traffico degli oppiacei. Si spara poco, per ora. Onorando la tattica antica della guerriglia, i talebani si ritirano, per ritrovarsi poi nei luoghi degli agguati. Gli americani, stavolta, non li inseguiranno, come fecero già i russi dissanguando l’Armata rossa e l’impero sovietico alla fine degli anni 70. Entreranno nelle città, costruendo scuole, ospedali, riparando acquedotti, per conquistare la stima degli abitanti. «Mangerete capretto con loro e berrete il te con loro», ha detto nelle istruzioni finali il generale Nicholson, «non importa quante munizioni usate contro i talebani, importa quanto rafforzate il governo di Kabul».

 la versione afghana del surge, l’impegno metà militare, metà umanitario e civile che agli ordini del generale-studioso, Petraeus, ha trasformato l’Iraq da campo di battaglia in paese che esporta petrolio. Una tattica già applicata dagli inglesi in Malesia con successo e ignorata tragicamente dagli americani in Vietnam, malgrado il geniale colonnello Vann si sgolasse a riproporla. la tesi del colonnello Nagl, che ricorda dal titolo del suo libro letto dal presidente Obama, come sia difficile «imparare a mangiare la zuppa con il coltello», vale a dire combattere la guerriglia, impresa che richiede pazienza, tempo e non è mai semplice, diceva Lawrence d’Arabia.

Oggi, nell’epoca dei media attivi 24 ore su 24, la guerra è pace, come Tolstoj non avrebbe mai immaginato. Non si vince solo uccidendo e distruggendo, ma contemporaneamente ricostruendo e insegnando. dunque felice l’arrivo parallelo di due libri assai diversi tra di loro, ma che rispondono alla stessa domanda: come si combatte e come ci si rappacifica nel XXI secolo? Il primo è L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, antologia del pensiero strategico classico ben curata per la collana dei Millenni Einaudi da Gastone Breccia, studioso di storia bizantina. L’altro è curato dal nostro ministero della Difesa, Ai Caduti nelle missioni all’estero, porta un intervento del presidente Napolitano, una presentazione del ministro La Russa e l’introduzione del capo di stato maggiore generale Camporini. Uno per uno il libro raccoglie volti e storie dei 131 caduti italiani, dal maresciallo Pio Semproni, trucidato il 21 ottobre del 1950 ad Agordat, in Eritrea, da predoni ribelli mentre collaborava con gli inglesi, fino al sottotenente Pezzullo, caduto combattendo nel 2008 nel villaggio afghano di Rudbar.

Dall’antologia di Breccia impariamo come gli antichi, in parallelo il cinese Sun Tzu e il greco Senofonte nel IV secolo avanti Cristo fino al geniale stratega prussiano Clausewitz e al suo rivale ideale, il pignolo Antoine-Henri Jomini, hanno pensato la guerra. I due volumi vanno letti insieme, e sarebbe bene fare della Spoon River dedicata ai nostri militari una versione per le scuole, perché la tradizione pacifista seguita alla sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale, e il rigore della nostra Costituzione contro la forza usata per aggredire hanno troppo a lungo impedito all’opinione pubblica del nostro paese di saper «pensare la guerra». Poche e mal collegate le cattedre di storia del pensiero militare, subito liquidati come «Stranamore» gli studiosi della disciplina. Basta sfogliare uno dei nostri manuali di storia per i licei o l’università. Le battaglie vengono sì menzionate, ma senza mai spiegare che ogni popolo e ogni cultura hanno combattuto nei secoli secondo la propria, precisa, identità. Furono i greci, agricoltori e artigiani, a inventare la battaglia campale, in un giorno o si vince o si muore, esattamente come avevano creato il concetto di unità di tempo, luogo e azione della tragedia (Eschilo e Socrate avevano combattuto in prima linea a Maratona e Delo). Troppo occupati per perdere tempo in sanguinose campagne, scendevano nella falange fianco a fianco a parenti e amici, e spingendo avanti con furia provavano a vincere la nuova pace. Lo storico americano Victor Davis Hanson, cresciuto in una fattoria, parla di «cultura occidentale della guerra», nata proprio dai greci, una prova di forza radicale che risolveva il conflitto senza distruggere le campagne.

Per i romani, come scrive il grande Hans Delbrück nella sua storia della guerra assurdamente non disponibile in italiano (ma che aspettano i buoni editori?), fare la guerra era una pulsione stagionale, a primavera la legioni si mettevano in marcia, e un motivo c’era sempre. Non riuscire più a pensare la guerra, ci rende impossibile capire la furia suicida degli attentatori dell’11 settembre, la pazienza dei nostri militari nei Balcani, in Africa e Asia, le sconfitte e la determinazione degli americani in Iraq ma anche la Cina che disloca la sua nuova flotta di sommergibili nell’Oceano Indiano, per accerchiare l’India e controllare le rotte del petrolio, i talebani, che come gli arabi davanti ai crociati, i partigiani davanti ai nazisti e i vietcong davanti al generale Westmoreland si ritirano oggi per colpire domani, costruendo però il consenso della popolazione. Il Che Guevara, autore di un celebre manuale di guerriglia, fu sconfitto in Bolivia perché non riuscì ad applicare i suoi principi, i contadini gli rimasero sempre ostili e informarono l’esercito di ogni sua mossa, un avvio di riforma agraria persuase i peones che era meglio non appoggiare i ribelli.

Breccia spiega bene il concetto, in guerra vince spesso chi programma la vita contro la morte e non viceversa, trattando della battaglia di Zama Naragarra che chiude la II guerra punica nel 202 avanti Cristo, con il formidabile Scipione l’Africano a liquidare il tattico principe, Annibale. A Canne il generale cartaginese aveva schierato i soldati più deboli, mercenari poco convinti, al centro dello schieramento, violando uno dei principi sacri della strategia e dimostrando, come nel judo, che la debolezza può essere una forza. I legionari romani spingendo il fronte nemico non lo videro cedere, Annibale stesso si mise tra i suoi soldati semplici e l’arco convesso si trasformò, passo dopo passo, in trappola concava che vide perire il fiore di Roma. Nella calca, trafitti dalle frecce, parecchi romani si strozzarono ingoiando zolle di terra per affrettare la certa morte.
A Zama Naragarra Scipione scommette sulla vita e non sulla morte. Anziché assediare Cartagine o puntare sul nemico, evade verso la fertile valle di Bagradas. Senza i suoi frutti e le sue ricchezze Cartagine non vive e Annibale deve – infine – inseguire e venire sconfitto a fronti invertiti, i romani spalle al deserto. La filosofia della guerra è tremenda, solo una battaglia perduta è peggiore di una battaglia vinta, commenta amaro il Duca di Wellington il giorno dopo Waterloo. Eppure gli uomini, come gli antichi romani, sono attratti dalla prova feroce. L’addestramento che trasforma gli uomini in blocchi capaci di affrontare il fuoco senza scansarsi: alla battaglia di Eylau un ufficiale rimprovera una recluta che si inchina davanti alle pallottole: «Che fai è piombo, mica merda». «Per fortuna la guerra è così tremenda, altrimenti gli uomini la amerebbero troppo…», dice il generale Lee che tenne così a lungo a bada i nordisti di Lincoln. La prima generazione di ufficiali inglesi e francesi della guerra 14-18 era composta da gentlemen che combattevano come andando alla caccia alla volpe: in pochi mesi non ne rimase nessuno. Ma sulla tolda della sua ammiraglia, alla cruciale battaglia di Lepanto, don Giovanni d’Austria, colpito alla corazza e più tardi ferito alla gamba, non resiste e balla ebbro di eccitazione.

Senza pensare la guerra non comprendiamo il passato né il presente, e ben venga dunque il lavoro di Breccia con due caveat. Il primo: fermare l’antologia a Clausewitz conferma il pregiudizio che la strategia sia strumento del passato, ed è un errore. Occorre un volume per l’Ottocento e il Novecento, con Giap e la strategia vietnamita di soffrire più del nemico, Mao che rilegge Sun Tzu, gli americani fino al generale Powell e la strategia del potere assoluto, Liddell Hart, e l’israeliano van Creveld, capace di capire che l’occupazione distrugge alla lunga il morale di ogni esercito. E le riflessioni, qui solo citate, del giapponese Kuribayashi sulla guerra e la virtù domestica, e la geopolitica di Kissinger. Altra critica sulle illustrazioni di Antonio Riello, carine, ma che distorcono il contenuto. Qui si parla di vita e di morte e le sue figurine sembrano cavate da un libro d’asilo: di nuovo forse il tentativo di tranquillizzare il lettore, la guerra inzuccherata. Non so se abbia ragione van Creveld quando scrive: «la sola vera ragione per cui noi abbiamo delle guerre è che agli uomini piace combattere». Certo che, da Sun Tzu alla valle di Helmand, se non capiamo la guerra non capiamo la storia di noi uomini e la nostra anima, anche la sua peggiore parte.
Per non indulgere a grotteschi spiriti bellici la soluzione non è nelle figurine bonarie. negli scritti ben raccolti da Breccia e nella galleria dei nostri caduti in missione di pace, dal sorriso del capitano Gonelli massacrato a Kindu, in Congo nel 1961 insieme ai suoi compagni più giovani, con il look di oggi, gli occhiali Ray Ban, le sopracciglia curate, Ramacci colpito nel suo elicottero nell’ex Jugoslavia, la crocerossina Luinetti, uccisa in Somalia, fino al capitano Massimo Ficuciello, laureato alla London School of Economics, figlio di un generale e di un’Italia non più povera, che cade a Nassirya con i suoi, cercando di fermare l’offensiva del terrorismo.
 nelle loro storie, come nella battaglia in corso in Afghanistan, che l’orrore antico della guerra e la dignità di chi è costretto a farla rifulgono. Non ci sarà futuro vicino senza guerra, spiega al guerriero Arjuna il dio Krishna prima della campale battaglia nel poema epico Mahabharata, ma è l’umile umanità di chi si batte per una precaria e futura giusta pace che cancella il male. Due libri da leggere insieme e insieme completare.