Franco Cordelli, Corriere della sera 6/7/2009, 6 luglio 2009
L’ULTIMA VITTIMA DIMENTICATA DEI SERIAL KILLER DELLA BRUGHIERA
La polizia non cercherà più il bimbo ucciso da Myra e Ian
Nel 1964 Myra Hindley aveva ventuno anni. A guardare oggi le sue foto in bianco e nero, sembra una tipica ragazza dell’Inghilterra ruggente, l’Inghilterra dei Beatles. La sua città era Manchester, ma se l’avessimo incontrata a Camden, uno dei quartieri operai di Londra, non ci saremmo meravigliati. Da lì, dalla periferia, desiderava tutti i giorni la stessa cosa, andare al centro, fare qualcosa, essere protagonista di una vita. Ma il suo tarlo, ciò che segretamente le divorava la coscienza, non era l’anonimato. Era il suo stesso passato, erano quei giorni in cui il padre le usava violenza. Forse accadde una volta sola – non si può ricordare, non si può dire – e, del resto, una volta o più volte non è la medesima cosa? Tutto cambiò il giorno in cui conobbe Ian Brady. Costui, un suo coetaneo, non aveva nulla di speciale, era come lei, alla ricerca di un lavoro, o di un lavoretto o, chissà, balordo e violento com’era, alla ricerca di un colpo solo, unico, di quelli con cui è possibile eliminare il lavoro di tutti i giorni. Ian Brady cercava una scorciatoia. Quella che intrapresero insieme, Myra e Ian, in Inghilterra è entrata nella storia del crimine, perfino nella leggenda. I Sex Pistols misero Myra in una loro canzone. Derek Jarman ci parla di lei, a lei allude, nel suo film Jubilee : Myra e Ian in un breve giro d’anni erano divenuti due assassini tra i più efferati del XX secolo.
Il processo che fu loro intentato nel maggio del 1966 li condannò per l’omicidio di Lesley Ann Downey di dieci anni, di Edward Evans di diciassette e di John Kilbride di dodici. Ventun anni dopo, quando erano in prigione, confessarono di aver ucciso altri due giovani, Pauline Reade di sedici anni e Keith Bennett di dodici. Erano, insomma, dei serial killer, come tanti altri. Ma nella storia di Myra e Ian ci sono almeno due elementi straordinari. In un libro di preghiere di Myra fu trovata la foto di una delle sue vittime, legata al letto in cui era stata torturata. I due assassini non si limitavano a uccidere: seviziavano, torturavano, infine nascondevano i corpi. Ian era il braccio. Myra era la mente in modo morboso, condiscendente, sospinta dalla mente efferata del suo compagno. Myra eliminava quei corpi come aveva cercato di eliminare il ricordo delle sevizie da lei stessa subite da ragazzina.
Torniamo a guardare le sue foto. I capelli, probabilmente ossigenati, a caschetto o dritti in testa come un cespuglio, indicano la volontà di essere un’altra, di cambiare faccia. Il suo sguardo è sempre torvo, una volta in modo diretto, esplicito; un’altra in modo obliquo, allusivo, ammiccante. Ma la sua bocca, il taglio della bocca, senza labbra, è inequivocabile: il rancore, la violenza compressa per anni e infine esplosa fino all’orrore, il desiderio di vendetta, sono trattenuti e chiusi in quella linea tutta dritta, priva di esitazioni.
Nel 2002, a sessant’anni, dopo la più lunga detenzione della storia carceraria del Regno Unito, Myra è morta. Il suo compagno di sventura, Ian, è ancora vivo, rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Invano, alla notizia della malattia di Myra, aveva chiesto per sé, amante maledetto, l’eutanasia. Ma, come Myra, neppure lui ha mai voluto confessare ciò che la polizia di Manchester voleva a tutti i costi sapere. I cadaveri di Lesley Ann, di Edward, di John e di Pauline erano stati ritrovati. Dov’era seppellito, ovvero nascosto, il cadavere di Keith Bennett?
Abbiamo detto che gli elementi straordinari sono due. Durante il processo, quando fu fatto ascoltare, il giudice chiese che il pubblico femminile uscisse dall’aula: era un nastro che registrava le urla di dolore di una delle vittime di Myra e Ian. Questi due assassini, divenuti (in specie Myra) icone del Male fino ad essere protagonisti di canzoni o film, non solo seviziavano prima di uccidere; ma quelle loro sevizie le volevano fissare nel tempo. Volevano, per così dire, immortalare la morte. I nastri, dunque. Ma anche le foto. Ve ne è una in particolare che costituisce l’altro, e più impressionante elemento di questa storia.
la foto su cui la polizia di Manchester si è accanita fino all’altro giorno. Il 2 luglio si è arresa, ha dichiarato chiuso il caso, a quarantacinque anni dal suo inizio e più di vent’anni dopo la confessione dell’assassinio di Keith Bennett. Per tutto questo tempo, la polizia inglese ha studiato la foto. Sperava di ritrovare lo straziato corpo di Keith. Supponeva che essa fosse stata scattata là dove Myra e Ian avevano sepolto il cadavere del ragazzo da loro torturato.
Sulla base dell’osservazione della foto, e anche avvalendosi di moderne tecnologie, i vari detective che si sono succeduti nella ricerca contavano di individuare il terreno roccioso in essa ritratto e di procedere alla restituzione dei resti di Keith alla madre che ancora oggi disperatamente li chiede. Ma se ai serial killer siamo abituati fino all’assuefazione, e se siamo altrettanto abituati a valutare il loro comportamento cercandone le cause (e quasi le giustificazioni, che ad esso diano una parvenza di razionalità), si può dire lo stesso di una ricerca come quella della polizia di Manchester?
Nonostante il suo fallimento, vi è nell’ostinazione della polizia inglese il senso di un valore indicibile, che sfida ogni irrazionalità, e che istituisce un nodo – tanto indissolubile quanto nel nostro tempo imprevisto – tra la ragione umana e il sacro, tra la legge e la morte. Che cos’è un cadavere? Che cos’è un cadavere vent’anni dopo? E perché cercarlo con tanto accanimento? Sono domande a cui non si può rispondere. Ma in esse, per una volta, c’è, di una storia, la sua morale.