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 2009  luglio 06 Lunedì calendario

DA WIMBLEDON AL CIRCOLO SOTTO CASA LA SUBLIME E CRUDELE ARTE DEL TENNIS


Non sapevo nulla di tennis e ho comin­ciato a giocare da ra­gazzo, con una serie di lezioni. Inizial­mente, sotto il tendone di un cen­tro sportivo, con Harry, un rotta­me 50enne che si scolava una bot­tiglia di porto a colazione. E più tardi con il vecchio Syd, un appas­sionato che frequentava i campi comunali, con un paio di gambe vistosamente storte che tra l’altro era incapace di piegare. A quei tempi Harry e Syd erano diventati ormai due tragici esemplari di de­cadimento fisico, ma avevano in comune quella caratteristica che denota il tennista talentuoso: sa­pevano esattamente dove sareb­be andata a cadere la tua pallina e si dirigevano verso quel punto con passo fluido e con il minimo sforzo. A rete, avevano la «mano morbida» – piena di macchie scure quella di Harry, nodosa e ar­tigliata nel caso di Syd, ma en­trambe sensibilissime e pronte a reagire con elasticità alla traietto­ria e alla velocità della palla. Il tuo diritto più forte atterrava sulle lo­ro racchette senza emettere il mi­nimo suono e la palla si smorzava e rotolava lentamente a metà cam­po, davanti alla linea di servizio.

Harry, almeno, aveva saputo darmi qualche consiglio prezio­so. Nel servire, diceva, immagina di lanciare la palla con tutta la rac­chetta verso il bersaglio; nei tiri bassi, fai ruotare completamente il braccio per colpirla nel momen­to stesso che la vedi partire verso di te. Gli insegnamenti di Syd, co­me ho capito in seguito, erano in­vece penosamente antiquati. «Sotto rete, stai ben dritto. Se la palla ti arriva bassa, abbassa la te­sta » (In realtà bisogna tenere la te­sta al livello del punto di impat­to). Syd era un tradizionalista an­che sotto altri aspetti. «Dài», mi rimproverò una volta a bassa vo­ce, mentre ce la mettevo tutta con­tro Linda, una mia ex che sapeva il fatto suo. «Le ragazze non vo­gliono vincere. E tu non devi farle vincere». In seguito, mi ripetevo le parole di Syd ogni volta che ve­nivo massacrato con gusto dalla mia amica Kate.

Alla svolta dei trent’anni, ho smesso di ingaggiare istruttori e ho cominciato a noleggiare le macchinette (che costano molto meno e non dispensano consi­gli). In un’ora ti puoi permettere circa 600 battute. Ma questo siste­ma ha un grosso difetto e me ne sono accorto un po’ alla volta. Racchiuse in una specie di carrel­lino, le palline da tennis scagliate dalla macchinetta sono di qualità molto diversa, alcune nuovissi­me, altre spelacchiate, altre anco­ra sgonfie e spugnose (come se strappate dalla bocca di un cane sei mesi prima). Rimbalzano tut­te ad altezze diverse, e pertanto l’obiettivo primario, che è quello di impratichirsi e di sviluppare una certa «memoria muscolare» nel tiro, risulta completamente mancato. Ho smesso di imparare, ho smesso di allenarmi e ho conti­nuato semplicemente a giocare, talvolta fino a sei volte la settima­na.

Il mio primo servizio era per forza piatto (sono alto 1 metro e 67), il secondo tiro debole ma effi­cace. La mia volée era sempre ner­vosa, ma la schiacciata funziona­va il più delle volte. La parabola del mio dritto era «piuttosto for­te », come si suol dire; il mio rove­scio, uno slice assai accurato. Più tardi ho perfezionato la variante a topspin (da utilizzare solo contro i tiri da metà campo). Il pallonet­to difensivo, di gran lunga la mia arma più efficace, si è sviluppato allo stesso modo. Una volta ho fat­to un pallonetto a effetto contro un rivale molto alto, molto atleti­co e molto bravo che poggiava i piedi sulla linea di servizio: non è saltato e non si è nemmeno gira­to, si è limitato a battere la mano contro la racchetta. E a questo am­monta in ultima analisi la carrie­ra di un tennista mediocre: acca­rezzare il ricordo di non più di una dozzina di tiri. Quel colpo a semivolo con ricaduta angolata, quel rovescio a effetto lungo la li­nea, quella spinta in contropiede che ha fatto inciampare e cadere secco a terra l’avversario...

La massima gloria l’ho toccata a quarant’anni. Durante un’estate memorabile mi sono destreggia­to sul campo da tennis come un poeta guerriero, nelle mie vene scorreva l’icore degli dei, mentre dal mio sguardo concentrato scoccavano lampi di intuizione e per ben cinque mesi ho imbrac­ciato la mia Wilson senza perdere nemmeno un set. Sul finire di quell’anno ho registrato forse la mia più fulgida vittoria, contro Chris, uno dei giocatori più pos­senti e spiritosi del Paddington Sport Club. Avremmo giocato un solo set, quel giorno, e io avevo un unico piano: l’ho strapazzato per bene fino a fargli perdere le staffe (sotto lo sguardo dei colle­ghi burloni). Quando ci siamo stretti la mano alla rete (7-5), Chris mi ha detto: «Sei stato bra­vo, Mart, ma giochi da schifo e se non ti batto la prossima volta 6-0, 6-0, col tennis ho chiuso». La vol­ta successiva ha vinto lui 6-0, 6-1. E Chris non ha dovuto appendere la racchetta al chiodo. L’ho fatto io, un po’ alla volta. Verso i 45 an­ni, ho notato che ogni partita, per me, diventava una lotta sempre più faticosa contro il passar del tempo. Invecchiando, è naturale che si rallenti e che i movimenti si facciano più impacciati. Ma il sintomo più spaventoso di tutti è il calo dei riflessi. La pallina ti vie­ne incontro, scavalcando la rete, come una strana sorpresa: tu te ne resti lì impalato a guardare fin­ché, con uno spasmo senescente, fai un balzo in avanti per andarle incontro. E queste avvisaglie le notavo anche in altre occasioni. Un pomeriggio, mentre guardavo una partita di calcio internaziona­le con i miei figli, a metà del se­condo tempo il ragazzo più gran­de ha osservato: «Al 63˚minuto, Paul Scholes ha segnato per l’In­ghilterra. E al 65˚,papà è balzato in piedi ad applaudire».

Circa un anno fa sono giunto al­la conclusione rasserenante che la giornata non è abbastanza lun­ga (e nemmeno la vita) per conti­nuare a giocare a tennis: cambiar­si, prendere la macchina, par­cheggiare, fare stretching, gioca­re, perdere, fare stretching, rimet­tersi in macchina, farsi la doccia e cambiarsi. Forse un giorno rien­trerò zoppicando in un campo da tennis. Per il momento, mi limito a rimpiangerlo. Tennis: la combi­nazione perfetta di prestanza atle­tica, arte, potenza, stile e senso dell’umorismo. Uno sport bellissi­mo, ma più di ogni altro così cru­delmente mortificato dal passare degli anni.

(traduzione di Rita Baldassarre)