Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  luglio 06 Lunedì calendario

CAPITALI IN CAMBIO DI KNOW HOW, LA STRATEGIA CINESE PER IL PETROLIO


Aria dei tempi nuovi, quest’anno, al Global Energy Forum di Huston, in Texas, dove a febbraio si sono dati appuntamento oltre duemila leader finanziari e imprenditori dell’energia provenienti da 55 paesi. Per la prima volta il Forum ha fornito servizi di traduzione completa in lingua cinese, anche se i rappresentanti della Cina erano meno dell’1% dei partecipanti. E ppoi, mentre la sala dove si teneva il seminario sul gas in Russia e in Europa era semi deserta, al breakfast meeting dedicato alla Cina si faceva fatica ad arraffare il caffè, tanto era affollato.
L’aneddoto lo ha raccontato Chen Weidong, segretario del China Oilfield Services Ltd., a Caijing, una delle più autorevoli riviste economiche cinesi, che il 18 maggio scorso ha fatto il punto su un fenomeno inedito e interessante: i nuovi rapporti e alleanze fra le grandi compagnie petrolifere (statali) cinesi e le multinazionali mondiali del petrolio. Un fenomeno favorito dalla attuale crisi globale, dai prezzi del petrolio bassi e volatili che mettono in difficoltà i paesi produttori, dalla sete di liquidità per investimenti e sviluppo che pochi paesi possono mettere in campo. La Cina, con i suoi 2000 miliardi di dollari di riserve, è naturalmente in posizione di grande forza, e la sta usando per assicurarsi gli approvvigionamenti energetici necessari alla sua inarrestabile crescita. Così c’è un grande via vai, a Pechino, di tycoon dell’oro nero: Royal Dutch Shell, Total, Exxon Mobil, Chevron, Bp etc. E’ un grande gioco di «do ut des»: la Cina consente l’ingresso nel proprio, grande mercato della raffinazione e della distribuzione solo alle compagnie disponibili a stringere con lei alleanze e accordi per operare all’estero. Le compagnie cinesi, infatti, non hanno ancora le tecnologie avanzate necessarie ad operare in modo efficiente nelle situazioni più difficili e hanno bisogno del know how dei grandi gruppi. I paesi ricchi di risorse, che spesso sono quelli con le situazioni politiche più instabili o sotto il tiro della comunità internazionale, accolgono favorevolmente il protettivo intervento cinese. Per le multinazionali del petrolio questa è una garanzia, che va ad aggiungersi all’altra, non secondaria: la copertura finanziaria accordata dal governo cinese alle proprie imprese, che così godono di prestiti a lungo termine e a tassi competitivi.
Sembra un bel combinato disposto in cui nessuno perde e ognuno guadagna qualcosa. Anche se chi ricorda l’arroganza delle «grandi sorelle» e i guasti devastanti provocati nei paesi produttori avverte un certo disagio.
E’ anche alla luce di questo scenario che va forse letta la «vittoria» ottenuta in Iraq dal consorzio fra la britannica Bp e la cinese Cnpc (China national petroleum corporation), l’unico fra i 22 concorrenti in gara (anche cinesi) ad aggiudicarsi un contratto, probabilmente il migliore: il giacimento di Rumaila, 956mila barili di petrolio estratti ogni giorno già oggi e riserve accertate per 17,7 miliardi di barili. Per averlo il consorzio ha dovuto piegarsi alle richieste di Baghdad, dimezzando l’offerta originaria. C’è chi, facendo un po’ di conti e calcolando le incertezze della situazione politica irachena, non lo considera un grande affare.
Ma con questo contratto la Bp riesce a mettere una zampa salda su un teatro mediorientale in cui oggi gioca parti secondarie, mentre Pechino rafforza ulteriormente la posizione che, con discrezione, aveva già cominciato ad acquisire in Iraq ben prima di ogni altro paese. Senza bisogno di aste, lo scorso anno, la Cina aveva raggiunto col governo iracheno un accordo da tre miliardi di dollari per la messa a frutto del giacimento di Ahdab (riprendendo un accordo che la Cnpc stessa aveva raggiunto nel 1997 con Saddam Hussein). Che dire, un bel gioco di squadra.