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 2009  luglio 06 Lunedì calendario

IN IRAQ APERTA LA DANZA DELLE ”BIG OIL” (CON SCHEDA)


Il ministero del petrolio iracheno terrà entro agosto una nuova «asta» petrolifera, dopo quella tenuta all’inizio di questa settimana a Baghdad. Nel primo round il governo iracheno ha offerto al mondo esterno riserve per ben 43 miliardi di barili di greggio; nel secondo saranno all’asta ulteriori 40 miliardi di barili. Baghdad si affida dunque ai finanziamenti e al know how internazionali per consolidare, entro il 2015, il suo destino di grande produttore, in controtendenza con il declino che attende gli altri paesi produttori di petrolio, Opec e non.
Ma se questo è l’obiettivo a breve termine del governo iracheno, affidato al grosso delle riserve quantitativamente accertate, le «big oil» hanno un altro obiettivo a medio e lungo termine: posizionarsi sulle riserve probabili, che porterebbero le riserve complessive dell’Iraq a livelli addirittura superiori di quelle saudite.
Gli eventi di queste settimane riflettono un gioco delle parti attraverso cui il management iracheno e le compagnie internazionali cercano di stabilire i rispettivi margini di manovra e di copertura reciproca. Il primo problema da superare, non trascurabile, è che il processo di «internazionalizzazione» del petrolio iracheno si apre in un totale vuoto giuridico e istituzionale, dovuto anche alle manovre ostinate con cui la passata amministrazione Usa ha cercato di dare carta bianca alle grandi aziende petrolifere anglosassoni sulle riserve energetiche irachene.
Su questo sfondo, il primo ciclo di trattative formali sembra da interpretare come «prove generali» dei veri giochi ancora da venire, un tentativo di fissare le regole prima che una legge sul petrolio davvero ispirata agli interessi nazionali iracheni possa contrastarli. L’asta di lunedì scorso, che molti commentatori hanno interpretato come un «flop» che sgonfia le aspettative del ministero del petrolio iracheno, acquista invece un preciso significato. Il Consiglio dei ministri iracheno ha approvato in tempi record il contratto con il consorzio, ben congegnato, tra la multinazionale britannica Bp e la compagnia di stato cinese Cnpc, che si è aggiudicato il giacimento di Rumaila Sud. Ebbene: questo contratto ha concretamente aperto la via al «nuovo corso». Era la partita fondamentale del primo round ed è giustamente stato considerato come una «vittoria» da entrambe le parti, che sotto l’apparenza di dura contrattazione hanno avuto molti modi di accordarsi mettendo fuori gioco Exxon Mobil, che non ha più molti santi protettori (Usa).

Lo show della trasparenza
Ecco che, creato il precedente contrattuale, Baghdad annuncia a breve termine il secondo giro di danza in cui, oltre alle nuove offerte, sarà possibile recuperare trattative concrete anche sui giacimenti volutamente «snobbati» al primo turno. La prossima competizione manterrà lo stile dello show televisivo introdotto dal ministero del petrolio iracheno per enfatizzare la «trasparenza» del procedimento di selezione. Una pantomina pubblicitaria destinata soprattutto a riabilitare la figura del ministro Hussein Shahristani, sommerso da critiche e accuse da ogni parte, con un rinnovato profilo patriottico-professionale di negoziatore duro a difesa degli interessi nazionali.
Impresa non facile. Dallo scorso dicembre infatti il management energetico iracheno, e con esso il governo, sono sotto pressione: un rapporto tecnico dettagliato e impietoso, redatto sul campo da consulenti locali, ha evidenzato le responsabilità della gestione politica del ministero del petrolio nel degrado degli impianti e delle tecniche di manutenzione dei giacimenti petroliferi meridionali, che ha portato al calo progressivo dei già modesti livelli produttivi. Il rapporto, che ha dato conferma a denunce già formulate da vertici e quadri delle società nazionali operative sul terreno, concludeva raccomandando al governo iracheno una serie di operazioni immediate per ripristinare la vitalità dei giacimenti più critici e a metterli in rete con altri giacimenti da valorizzare.
Si moltiplicano inoltre le critiche personali al ministro Shahristani per il centralismo dirigista con cui ha improvvisato «in proprio» criteri che solo una legge petrolifera poteva autorizzare. La costituzione irachena, purtroppo o volutamente, non è corredata da una legge ad hoc che chiarisca i principi applicativi per la gestione delle risorse energetiche nazionali, e affida alla responsabilità primaria del governo centrale (sia pure in consultazione con le amministrazioni provinciali dei territori coinvolti) quei giacimenti definiti genericamente «current fields», che dovrebbero corrispondere ai giacimenti in corso di sfruttamento, in toto o parzialmente. Shahristani ha scelto l’interpretazione più estensiva, che gli dà competenza su tutti i giacipenti già scoperti, così attribuendosi l’87% delle riserve petrolifere comprovate e, disinvoltamente, il 100% dei giacimenti di gas naturale tutti ancora da sfruttare, salvo quelli in territorio curdo.
Verso il governo regionale curdo poi Shahristani ha scelto la contrapposizione totale: qui il governo regionale ritiene, in assenza di legge, di interpretare letteralmente la costituzione e avere competenza assoluta sulla gestione di nuovi giacimenti e dei relativi contratti di sfruttamento con compagnie straniere; solo di recente ha alleggerito il controllo per favorire le compagnie turche in Kurdistan, su pressione della nuova amministrazione Usa.
Il ministro del petrolio inoltre si è creato nemici temibili nell’Unione dei lavoratori petroliferi, quando ha cercato di imporre l’intervento di compagnie straniere con contratti di servizio nei giacimenti dove già operano con lodevoli risultati compagnie nazionali. Anche in parlamento cresce l’ opposizione, tra quanti ritengono che il programma pluriennale di sviluppo produttivo, in assenza di una legge adeguata, preveda «modelli nuovi» di contratti contrari agli interessi nazionali o addirittura incostituzionali. Molti ricordano il primo «pacchetto» di petrolio iracheno, affidato senza procedura di offerta («no bid») alle Compagnie soprattutto anglosassoni, e bloccato in extremis nel 2008 dall’intervento di senatori democratici Usa: i giacimenti sarebbero stati infatti gestiti con contratti di Production sharing agreement (Psa) molto favorevoli alle stesse compagnie che avevano contribuito a elaborare il progetto di legge petrolifera poi affondato in parlamento.
Sono state proprio le preoccupazioni Usa a rimettere in pista la procedura della gara con cui sono stati riproposti, al primo storico bidding di fine giugno, gli stessi 43 miliardi di barili di riserve, tutte classificate come «current fields», corredato da 7,500 miliardi di piedi cubi di giacimenti vergini di gas naturale.

La strategia dei «current fields»
Per Hussain al-Sharistani la gara è l’occasione per saggiare le difficoltà delle diverse situazioni locali e l’interesse delle compagnie, caricando il tutto sui costi di produzione che saranno oggetto di selezione - un modo di esprimere la disponibilità a vari tipi di rischio, da non confondere con vere e proprie quotazioni di gara che emergeranno in seguito. Per le compagnie petrolifere, oltre all’interesse per questo primo «storico» bando, c’e anche la curiosità di andare a «vedere il gioco».
In questa fase a Shahristani interessa soprattutto affermare il criterio estensivo di «current field» facendone un fatto compiuto. Magari anche verificare gli effetti dissuasivi che possono avere sulle Companies le intimidazioni dell’amministrazione kurda, anche piuttosto pesanti quando si tratti di giacimenti per il cui sviluppo ritiene di dover essere coinvolta. E’ il caso dei giacimenti di Kirkuk e di Bai Hassan, la cui messa a gara senza consultazioni è ritenuta «incostituzionale» dal ministro del petrolio kurdo il quale dunque ha messo in guardia le compagnie dall’aderire al bando. La Conoco infatti reagirà con una quotazione esagerata di 26,70 $ per barile a quella ministeriale (4 $ a barile), che tende a minimizzare le minacce kurde. E’ importante anche verificare quanto può influire negativamente sull’offerta per il mega giacimento di West Qurna l’eccezione sollevata dal general manager della Soc (South oil company, che gestisce i giacimenti meridionali), il quale insieme alla Noc (North oil Company) deve fornire le unita operative partner locali e i membri che partecipano al board con la compagnia straniera: ebbene, di recente ha espresso di parere di illegittimità costituzionale sulla selezione dei giacimenti da «cogestire» con compagnie straniere quando già vi operano società nazionali che siano in grado di gestirli in modo adeguato a costi nettamente inferiori.
Quanto ai giacimenti di gas naturale, più o meno snobbati in questa fase, è noto che Royal Dutch Shell ha già preparato un «master plan» generale sull’utilizzo delle riserve di gas naturale libero, soprattutto per un lucrativo progetto di export di Ngl che dovrebbe concretizzarsi in un contratto in settembre. Sullo sfondo c’è inoltre la possibilità che il gas iracheno diventi un importante strumento di contrattazione politica: l’amministrazione Obama vede nel giacimento di Akkas, «scoperto» dai generali Usa nella provincia sunnita dell’Anbar, una possibilità di creare partnership siro-irachene. Ecco perché il ministero del petrolio ha tenuto a inserire il gas nel primo bando di asta - per poi dire che, in assenza di interessi internazionali, provvederà a svilupparlo direttamente, anche se trattandosi di giacimento «vergine» ricadrebbe nelle competenze dell’amministrazione sunnita locale.

RUMAIL SUD, L’AFFARE DA 17 MILIARDI DI BARILI

Rumaila Sud. Una riserva di 17,3 miliardi di barili da ottimizzare con le tecniche di recupero più avanzato che ne farà il secondo giacimento al mondo per livelli produttivi, in competizione con quello saudita di Gwahar. Scoperto nel 1952 da British Petroleum, il giacimento di Rumaila Sud è quello che nel 1990 ha dato un motivo all’invasione irachena del Kuwait, accusato da Saddam di succhiarne le risorse con teniche di perforazione orizzontale oltreconfine. Nel 1992 la parte meridionale di Rumaila Sud è finita nei confini di sicurezza del Kuwait, ridisegnati dall’Onu: l’emirato l’ha acquisita come compensazione dei danni di guerra e l’ha ribattezzata Ratqa. La questione resta aperta. Il giacimento è nelle condizioni ottimali per esportare attraverso il Golfo, anche grazie alla protezione delle forze speciali britanniche. A fronte di Exxon che aveva proposto costi di produzione di 4,80 $ a barile con un impegno produttivo di 3,1 milioni di barili/giorno, il consorzio Bp-Cnpc aveva offerto un tetto produttivo di 2,85 milioni di barili/giorno e un rimborso di costi produttivi di 3,99 $ a barile. Il ministero del petrolio ha concluso l’affare portando l’offerta Bp a 2 $/b . Come ha detto il ministro Shahristani, «i costi operative reali a Rumaila sud non superano il dollaro a barile, quindi il consorzio si è assicurato un buon ritorno».