Simona Morini, ཿIl Sole-24 Ore 5/7/2009;, 5 luglio 2009
SBULLONO DUNQUE SONO
«Fermate il mondo, voglio scendere!». Il successo travolgente di
Shop craft, soul craft di Matthew B. Crawford – laureato in scienze politiche a Chicago e attualmente meccanico – arrivato alla quinta edizione in poche settimane, fa pensare che anche l’America, in piena crisi economica e spirituale, abbia voglia di "scendere" – come Lando Buzzanca e Paola Pitagora nell’omonimo film degli anni Settanta – frenando una corsa verso il futuro così sfrenata da travolgere abitudini e ideali a cui non si è disposti a rinunciare.
L’ex teorico,che oggi gestisce un’officina in una città di provincia, descrive nel suo libro il fascino dell’«esperienza di fare le cose»: racconta del piacere che si prova a eseguire una riparazione ben fatta («l’esuberante bwaaAAAAP! blum blum» del motore funzionante), della sensazione rassicurante che dà in tasca un rotolo di banconote invece della carta di credito; si rallegra del sorriso riconoscente del cliente soddisfatto e,
dulcis in fundo , della nuova capacità di sua moglie di distinguere l’odore dei diversi solventi usati durante la giornata per pulire od oliare i motori (che ricorda un po’ il fascino delle canottiere sgualcite e sudaticce di Marlon Brando in Fronte del porto !).
A giudicare dalle email entusiastiche dei lettori e dalle interviste a giardinieri, meccanici, parrucchieri e idraulici pubblicate sabato scorso sul «Financial Times», gli impiegati e i manager Usa hanno voglia di mestieri, di "cose vere". Come agli inizi del Novecento, quando le élites del paese, preoccupate della perdita della libertà individuale che aveva accompagnato la burocratizzazione delle attività economiche, avevano rivalutato il lavoro manuale come antidoto al senso di irrealtà, scarsa autonomia e percezione frammentata del sé generato dalla vita d’ufficio creando un vasto movimento antimodernista.
Crawford, però, non è un semplice meccanico. Diversamente dagli antimodernisti e dai semplici meccanici (che non scrivono bestseller e alle cui mogli l’odore di grasso di solito fa schifo)sa bene che quel movimento, per un curioso paradosso, provocò una profonda scissione tra il lavoro dei colletti blu in fabbrica – che finì per ridursi alla ripetitività della catena di montaggio – e il lavoro «puramente intellettuale» dei colletti bianchi – destinato a trasformarsi in ottuso burocratismo ”: quella scissione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (e il prestigio che ha assunto nella società il secondo a scapito del primo) che è il principale obiettivo critico del libro. Crawford non è contro il progresso, né contro la tecnologia; non è contrario alla novità, al cambiamento, alla scienza. Ma nel denunciare la scomparsa delle scuole professionali e degli istituti tecnici (le cosiddette "shop class", appunto), nell’elencare i limiti di un tipo di formazione astrattamente teorica – non più volta al fare, bensì alla semplice «disposizione a fare» – riesce a cogliere efficacemente uno squilibrio culturale ed educativo che genera una profonda crisi nella nostra idea di conoscenza e una buona dose di insensatezza nella vita delle persone.
Crawford ha ragione nel denunciare che viviamo quotidianamente in un mondo di oggetti rispetto ai quali siamo passivi e dipendenti, perché non li conosciamo (e magari perché sono progettati proprio per essere inconoscibili). Ha ragione a ricordarci che «non si può piantare un chiodo in internet» e che quindi non si può ridurre l’intera conoscenza a un sapere astratto di regole, perché stiamo pur sempre in mezzo a "cose", che capiamo solo attraverso l’esperienza e l’intuizione. «Hunches, rather then rules» («intuizioni anziché regole» si potrebbe tradurre meno efficacemente in italiano).
Non si tratta del solito revival dei sentimenti e dell’istinto contro la ragione, ma di una genuina «polemica culturale », come lui stesso la definisce: l’invito a tornare a quell’incontro con le cose materiali che è stato all’origine delle scienze naturali non meno che della crescita economica e dell’emancipazione istituzionale. Spinoza costruiva occhiali, Wittgenstein progettava case e, nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, tre volumi sono teorici e gli altri venti contengono le planches dedicate ai mestieri, al funzionamento dei macchinari, alla fabbricazione degli oggetti. Dopo la lettura di questo libro, se alcune "teste d’uovo" scoprissero che avrebbero forse più soddisfazione come parrucchieri, giardinieri e artigiani, sarebbe già un bel risultato. Ma la polemica di Crawford induce a un ripensamento globale e profondo del sistema educativo e dell’idea stessa di cultura, indispensabile per dare senso alle nostre attività e per procedere "allegramente" nel turbine del mondo senza timore di essere travolti.