Massimo Mucchetti, Corriere economia 6/7/2009, 6 luglio 2009
CONTI IN AFFANNO, MA ORA IL PROBLEMA E’ LA REPUTAZIONE
Nella Milano del 1630, il popolino credeva che i malvagi ungessero le porte delle case con una sostanza biancastra atta a diffondere la peste. La superstizione offriva al popolino colpe e colpevoli a buon mercato, e alle autorità impotenti un comodo alibi. Per l’Italia del secolo XXI, piegata dalla recessione di origine finanziaria, i nuovi «untori» sarebbero i banchieri, che negano il credito alle piccole e medie imprese e alle partite Iva in genere, considerate in blocco meritevoli di fiducia. In realtà, indicare capri espiatori alla pubblica esecrazione non impediva il contagio nel XVII secolo né oggi risolve la crisi economica.
Certo, i banchieri non sono santi. Ottenere credito è più difficile. E però la questione vera è un’altra. Questa dura recessione, dopo la quale ci vorranno anni per tornare ai livelli precedenti la crisi, richiederebbe sia alle banche che alle imprese di lavorare con più capitale e meno debito: una riconversione costosa per entrambe.
Prima di Lehman, nel settembre 2008, annota la Banca d’Italia nella Relazione annuale, il sistema delle imprese italiane aveva debiti finanziari pari allo 0,73% del prodotto interno lordo contro una media di Eurolandia dello 0,94%. All’interno di questa minor esposizione, il peso relativo dei prestiti bancari era sostanzialmente uguale: il 34,3% delle passività, che comprendono anche i titoli, le azioni e i debiti commerciali, in Italia contro il 34,9% della zona euro. Più in generale, il complesso delle passività finanziarie era in Italia pari a 2,13 volte il Pil, un rapporto inferiore a quelli di Usa, Giappone, Regno Unito, Francia e Spagna e superiore solo a quello della Germania. Dunque, l’economia italiana avrebbe spazio per aumentare la sua leva finanziaria, ma utilizzando sia la banca che il capitale, e non solo la banca.
Secondo il Fondo monetario internazionale, del resto, il complesso degli impieghi creditizi italiani è pari al 97% del Pil contro il 95% tedesco, il 94% francese. Ma conta anche la tendenza. Nel 2008, i debiti finanziari delle imprese sono aumentati di 103 miliardi e sono balzati al 182% del valore aggiunto. Il debito è ormai al 48,7% del totale dei mezzi finanziari delle imprese, 8 punti in più che si spiegano pure con il calo del valore di mercato del capitale. Tra le 50 mila imprese censite dalla Centrale dei bilanci, il grado di indebitamento cresce nelle unità con più di 250 dipendenti e cala, pur restando più elevato, nelle minori. E’ in questo quadro che arriva la recessione.
Il risultato, a marzo 2009, è un marcato rallentamento della crescita degli impieghi che scende dal 13% del 2006 al 4%. Ad aprile siamo al 3,7% e per maggio bisognerà attendere che il ministero dell’Economia sdogani i dati della Banca d’Italia. A marzo 2009 su marzo 2008, comunque, i primi 5 gruppi bancari hanno addirittura ridotto del 2,1% gli impieghi, mentre le banche più piccole hanno continuato a espandere le erogazioni fino al 10%. Va ricordato, però, che le grandi banche fanno più credito non solo in assoluto ma anche in relazione ai depositi. E per riuscirci ricorrono ai prestiti delle banche estere che, nel 2008, sono si sono ridotti di ben 48 miliardi a causa della crisi di fiducia.
Le banche italiane devono fronteggiare un problema di conti e uno reputazione. Rielaborando i dati Bankitalia, il ritorno lordo sul capitale dei primi 5 gruppi bancari italiani cala dal 18,5% del 2007 al 7% del 2008 e, secondo Prometeia, potrebbe scendere ancora al 4% nel 2010 risalendo a un modesto 5% nel 2011. Secondo la società di alta consulenza Accenture, i primi 20 gruppi bancari internazionali precipiterebbero da un Roe lordo del 26% pre crisi a uno del 4% post crisi. Accenture elenca le ragioni del tracollo: aumento dei requisiti patrimoniali (meno 5%), minor ricorso al debito (meno 6%), maggiori costi di raccolta (meno 66%), minori commissioni (meno 2%) e maggiori accantonamenti a rischio su crediti (meno 3%). Potrebbero, queste banche, risalire al 15% nel 2012, per un terzo tagliano i costi e per il resto attraverso la ristrutturazione dell’offerta e del profilo di rischio. In Italia, stima Accenture, sempre al 2012 le maggiori banche potrebbero risalire verso il 10-12%. E lì, salvo eccezioni, ci si fermerà.
Il fatto è che le perdite su crediti stanno aumentando: 5 miliardi nei primi tre mesi del 2009, certifica la Vigilanza. Ma la realtà è peggiore di quanto mostrano i bilanci, perché le banche, potendo scontare fiscalmente perdite non superiori allo 0,3% dei prestiti, non hanno alcun interesse a fare pulizie, pagando pure le tasse sulle perdite.
Una situazione equivoca ( e non migliorata dal decreto anticrisi che alza allo 0,50% la soglia, ma solo per i nuovi crediti, fatalmente pochi) tale da favorire l’opacità. E questo è un problema per la reputazione. Quando tutto andava bene, nessuno stava a guardare. Ma adesso si guarda e si confronta.
I banchieri hanno certo ragione di chiedere all’artigiano, al commerciante o al piccolo industriale che sfoggia il Porsche Cayenne di metterci anche capitali propri oltre a pretendere fidi più larghi. Ma ne hanno meno quando consolidano i debiti delle grandi imprese senza metterne in discussione la gerenza e sena pretendere adeguate iniezioni di capitali da parte dei soci eccellenti, magari colleghi nei consigli di amministrazione che contano. Non basta per essere considerati untori, ma certo non aiuta la reputazione in questi tempi bui.