varie, 6 luglio 2009
IRAQ PER VOCE ARANCIO
Il 30 giugno le truppe americane si sono ritirate dai grandi centri urbani iracheni (Bagdad, Falluja, Mosul, Bassora). I cittadini del Paese governato fino al 2003 dal dittatore Saddam Hussein e poi alle prese con un sanguinoso periodo postbellico, sperano adesso di intraprendere la via verso un progresso economico che nella migliore delle ipotesi dovrebbe ricalcare almeno in parte quello dei Paesi europei usciti in condizioni disastrose dalla seconda guerra mondiale.
La situazione economica in Iraq è molto complicata. Gli ultimi dati disponibili parlano di un pil procapite annuo di 1.900 dollari. Se il paragone con quello italiano (29.050) è per ovvie ragioni poco significativo, il confronto col dato dei paesi confinanti è piuttosto interessante: Iran 9.910, Siria 4.230, Giordania 4.630, Arabia Saudita 22.300, Turchia 8.420. All’inizio del 2008 l’Unam, la missione di assistenza delle Nazioni Unite per l’Iraq, dichiarò che la maggioranza della popolazione viveva addirittura con meno di un dollaro al giorno.
Secondo stime irachene dello scorso mese di maggio, negli utlimi tempi le cose vanno un po’ meglio e adesso ”solo” il 23% dei 27 milioni di iracheni vive in povertà. La situazione è particolarmente grave nelle zone rurali, mentre spinge all’ottimismo la performance nei tre governatorati del nord che formano la regione autonoma del Kurdistan, Dohuk, Irbil, e Sulaimaniya: quest’ultima provincia ha il più basso tasso di disoccupazione di tutto il Paese (3%), mentre nelle province più povere si sfiora il 50% (nel 2004 la media nazionale era del 66%, nel 2008 le stine dell’Unam arrivavano all’80%).
Nonostante i progressi degli ultimi mesi, ancora adesso una parte consistente della popolazione irachena tira avanti grazie alla razione mensile cui ha diritto ogni famiglia sulla base di una tessera annonaria. Il pacco comprende farina (9 kg a persona), riso (3 kg), fagioli (250g), concentrato di pomodoro (500g), zucchero (2 kg), olio (un litro), latte (250g), tè (200g), latte in polvere per bambini (1,8 kg), sapone (250 g), detersivo (500g).
Prima d’avventurarsi in previsioni sul futuro dell’Iraq, bisogna conoscere il suo passato. Fino al 1918 sotto l’impero ottomano, dopo la fine della prima guerra mondiale il Paese fu affidato all’amministrazione inglese. Nel 1921 l’emiro hashimita Faysal ibn Husayn divenne il primo re dell’Iraq, la cui indipendenza fu proclamata dalla Società delle Nazioni il 3 ottobre 1932. Dopo il colpo di Stato che portò al potere Rashid Ali Kailani, nel 1941 il Paese fu occupato dagli inglesi.
Nel 1958 una rivolta militare si concluse con l’uccisione del re Faysal e del reggente ”abd al-Ilah, il potere fu preso dal generale Kassem che proclamò la repubblica per poi concludere un accordo con l’Unione Sovietica. Nel 1963 un nuovo colpo di Stato militare sostituì Kassem col colonnello Aref, appoggiato dai socialisti arabi del Baath. Morto Aref in un incidente aereo dell’aprile 1966, il 17 luglio 1968 l’ennesimo colpo di Stato porto al potere il generale Al-Bakr, che nel luglio 1979 lo cedette a Saddam Hussein, al comando fino all’invasione americana del 2003.
La principale ricchezza dell’Iraq è il petrolio, che cominciò a venir estratto nel 1927 e adesso genera il 94% delle entrate nazionali: le sue riserve sono al secondo posto nel mondo (solo l’Arabia Saudita ne ha di più). Grande protagonista dell’attività economica fu all’inizio l’armeno Calouste Gulbenkian, che aveva intuito il potenziale energetico della Mesopotamia: padre fondatore del consorzio tra AngloPersian (antenata della Bp), Shell, Cfp (antenata della francese Total), Standard Oil (Usa), prendeva come ”commissione” il 5 per cento del petrolio.
Nel 1972 l’Iraq nazionalizzò i pozzi. Nel 2003, alla vigilia dell’ultima guerra, il Paese venne presentato come una grande occasione per l’industria petrolifera mondiale. Sotto embargo e con impianti senescenti, l’Iraq produceva poco più di 2 milioni di barili al giorno. Le cose da allora non sono molto migliorate: i barili sono 2,4 milioni al giorno, niente se si pensa che le riserve ufficiali ammontano a 112 miliardi di barili e che alcune stime arrivano addirittura oltre i 215 miliardi. L’obiettivo del governo è di portare la produzione ad almeno 6 milioni di barili al giorno entro il 2015.
L’enorme reddito prodotto dall’oro nero finanziò nella prima metà del secolo scorso un certo sviluppo industriale (petrolchimica, siderurgia, cementifici, raffinerie di zucchero). Nel 1996 l’industria contribuiva al 17,9% del Pil, dopo la guerra tale percentuale era scesa all’1%. Caduto il regime di Saddam Hussein, è stata avviata un’ampia privatizzazione (ha coinvolto 200 industrie di Stato) con apertura ai capitali stranieri, ma il programma è in parte fallito per il permanere della resistenza armata che ha scoraggiato gli investimenti esteri.
L’Iraq non ha una grande tradizione agricola: nelle campagne del nord fino a ben oltre la metà del secolo scorso venivano praticate soprattutto colture non irrigate, con villaggi dediti alla coltivazione dei cereali (frumento e orzo), nel Kurdistan era diffusa la coltivazione del tabacco, nelle steppe e ai margini del deserto siriaco veniva allevato il bestiame, soprattutto ovini e caprini. Solo dopo la realizzazione di grandi infrastrutture (soprattutto opere di irrigazione lungo il fiume Eufrate), dalla metà degli anni ”70 si sono diffuse le piantagione di cotone e palme da datteri (di cui l’Iraq è stato in passato il primo produttore mondiale). Nel 1986 il contributo dell’agricoltura era stimato nell’8% del pil, nel 1995 aveva raggiunto il 24%. Adesso è praticamente inesistente.
L’entrata in carica del nuovo governo dopo le elezioni del gennaio 2005, primo ministro lo sciita Ibrahim al-Jaafari, ha tardato a produrre risultati: nel 2007 l’inflazione era ancora al 30%, metà del fabbisogno alimentare era soddisfatto solo grazie agli aiuti alimentari internazionali, il 60% della popolazione urbana non aveva accesso all’acqua potabile. L’unica zona ad aver mostrato da subito una certa ripresa economica è stata la regione autonoma del Kurdistan, trainata dai contratti stipulati con le compagnie petrolifere di tutto il mondo.
Il 30 giugno, in contemporanea col ritiro americano dai grandi centri urbani, si è svolta in una sala dell’hotel Rashid di Bagdad un’asta con in palio otto contratti di durata ventennale del valore di centinaia di miliardi di dollari: sei per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi già avviati, due per giacimenti di gas in gran parte ancora da sviluppare. L’operazione, ripresa dalla tv Al Iraqiya, prevedeva offerte in busta chiusa da inserire in una teca di cristallo, l’offerta vincente veniva messa a confronto con la richiesta non negoziabile del governo iracheno. Il rappresentante di una multinazionale (c’erano 31 compagnie, tra cui le italiane Eni ed Edison) ha detto che sembrava di stare a un «festival della canzone».
Il consorzio tra la multinazionale britannica Bp e la compagnia di stato cinese Cnpc ha sconfitto gli americani di Exxon-Mobil alleati con la malaysiana Petronas e si è aggiudicato il giacimento di Rumaila Sud: scoperto nel 1952 dalla stessa Bp, è quello che nel 1990 scatenò l’invasione irachena del Kuwait, accusato da Saddam di succhiarne le risorse con teniche di perforazione orizzontale oltreconfine. La riserva, 17,3 miliardi di barili da ottimizzare con le tecniche di recupero più avanzato, potrebbe diventare il secondo giacimento al mondo per livelli produttivi, preceduto solo da quello saudita di Gwahar.
Per Rumaila Sud Exxon aveva proposto costi di produzione di 4,80$ a barile con un impegno produttivo di 3,1 milioni di barili al giorno, Bp-Cnpc ha vinto con un tetto produttivo di 2,85 milioni di barili/giorno e un rimborso di costi produttivi di 3,99$ a barile. Il ministero del petrolio ha concluso l’affare portando l’offerta Bp-Cnpc a 2 $/b. «I costi operativi reali a Rumaila sud non superano il dollaro a barile, quindi il consorzio si è assicurato un buon ritorno», ha spiegato il ministro Shahristani. Secondo il ”Financial Times” l’asta è stata però un mezzo fallimento: i 2,85 milioni di barili al giorno che Bp e Cnpc hanno promesso di estrarre sono più di quanto prodotto al momento dall’intero Iraq, ciononostante alla fine il guadagno non supererebbe i 120 milioni di dollari l’anno, lo 0,6% dei profitti globali del consorzio.
Le altre sette gare si sono risolte con un nulla di fatto: le compagnie vincenti hanno sistematicamente ritirato le offerte, troppo lontane dalle richieste del governo. Il caso del giacimento di Bai Hassan aiuta a capire come sono andate le cose: il consorzio guidato dall’americana Conoco-Phillips ha proposto un compenso di 26,70 dollari per ogni barile aggiuntivo estratto, il governo iracheno non voleva pagarne più di quattro. Lo stesso, più o meno, è accaduto al consorzio guidato dall’Eni per i pozzi di Zubair e quello di cui faceva parte l’Edison per i giacimenti di gas di Akkas. Una nuova asta è in programma per agosto.
Alla fine degli anni 70, prima dell’avvento di Saddam Hussein e della terribile guerra con l’Iran, l’Iraq poteva considerarsi un paese a reddito medio. Con l’arrivo della pace, la speranza è di recuperare almeno quel livello di benessere. Per farlo è necessario in primo luogo far rientrare i cervelli che dall’inizio della guerra hanno lasciato il paese, ad esempio l’80% dei medici, per citare la categoria emigrata in maniera più consistente. Secondo l’Onu dal 2003 il 40% della grande borghesia irachena ha lasciato il paese e bisogna tener conto che parliamo di una classe che nei momenti migliori non contava più di 3.000 famiglie.
Per il momento, aspettando che l’enorme ricchezza petrolifera venga sfruttata in modo adeguato, che ritornino nel Paese i professionisti necessari al funzionamento dello Stato, che la fine della guerriglia convinca gli investitori esteri a rilanciare le industrie e che nelle campagne si riprenda almeno la coltivazione dei datteri, la giovane popolazione irachena (età media nel 2007 19,1 anni, contro i 42,3 dell’Italia, per avere un termine di paragone) ha soprattutto una via d’uscita dalle condizioni di estrema povertà: arruolarsi nell’esercito o nelle Forze Armate, dove le paghe sono, dato il contesto, abbastanza alte da compensare i rischi.