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 2009  luglio 06 Lunedì calendario

L’erba dello svizzero è sempre più verde L’ultima stecca al cielo di Andy, strabico di fatica e di paradisi perduti, è il colpo che ci libera

L’erba dello svizzero è sempre più verde L’ultima stecca al cielo di Andy, strabico di fatica e di paradisi perduti, è il colpo che ci libera. Una stecca generosa. Da Woody Allen e la sua pupa coreana al giudice di sedia, da Henry Kissinger «triplo mento» a Russell Crowe il gladiatore, dal Duca di Kent all’ultimo dei raccattapalle, tutti gli eroi di Wimbledon schierati e museificati, inclusa la transilvanica maschera di Ilie Nastase, tutti prigionieri di quella che ci era stata venduta come una finale di tennis ma che, punto dopo punto, minuto dopo minuto, stava diventando un maleficio dal quale era impossibile scollarsi. La sensazione, dopo quattro ore e mezzo di gioco e cinque set, sul 15 a 14 per Roger, d’essere finiti, protagonisti e comparse, attori e spettatori, dentro un film di Buñuel. Una di quelle trappole infernali, dove tutto accade ma tutto resta immobile. Dove il rituale si ripete sempre uguale fino allo sfinimento, dall’inizio alla fine, per poi ricominciare, i colpi, i grugniti, gli ace, i tic, i games, i pugni, le facce, gli asciugamani, i cambi di campo, l’erba nel frattempo diventata terra, i languori di Clerici, i numeri di Tommasi. Una messa che non finisce mai e che, nel momento in cui finisce e il prete ci dice «andate in pace», si resta lì, chiodati o forse svuotati, nessuna voglia di ritornare al mondo reale, perché sai che lì, sul Centrale di Wimbledon, è accaduto qualcosa di unico, e magari hai anche voglia di provare a spiegartelo. Qualcosa che solo il tennis oggi può regalare. E del tennis, solo quel mondo a parte che è Wimbledon. Spregiatori del tie-break, volgare innovazione modernista, gli inglesi hanno preteso di abolirlo almeno per il quinto set del loro torneo sull’erba. L’unica competizione sportiva che non può finire per la decisione di un giudice, lo svuotamento della clessidra, o un colpo da kappaò. Sfida senza tempo e senza limiti, quella tra Federer e Roddick era lì, sotto gli occhi di tutti, libera di prolungarsi all’infinito, fino al collasso di uno dei due. E così minacciava, senza la stecca del meraviglioso Andy, quando steccare è un po’ come morire. Alle quindici in punto tutti gli amanti del tennis e tutti i rogeriani del pianeta, che più del tennis amano Federer, si sono schierati davanti alla televisione con la precisa missione di liberarsi di un incubo, la finale dello scorso anno di Wimbledon. Quando uno spaventevole topastro in assetto da guerra e braghe da lottatore di capoeira si era messo tra loro e uno dei rari piaceri sopravvissuti della vita, con la scusa di un equivoco chiamato tennis. Il simpatico Andy, una pasta di ragazzo, sembrava la vittima predestinata. Falso. Andy era Rafa, sotto mentite spoglie. Il suo travestimento yankee. Roger aveva battuto Andy diciotto volte su venti. Ma quello non era Andy. E Roger non era Roger. Nel suo rettangolo verde di casa, il suo Taj Mahal, al di là della rete, lo svizzero indovinava, sotto il cappellino che buttava sudore a fiotti, il sorcio dei suoi incubi peggiori. Invano, Roger cercava pace dentro di sé, sbirciando in platea ora il suo mito Pete Sampras, venuto apposta a farsi defraudare da lui, ora la rotonda sagoma della sua Mirka prossima, dopo quattro ore di doglie e palpiti, a scodellare sul campo la creatura. Dopo quattro set e quattro ore, il quinto era per Roger e noi rogeriani, che trovano pace nei suoi fluidi gesti così come il malato terminale trova sollievo nella morfina, l’aggiornamento dell’incubo. Interminabile, come le analisi dei freudiani. Nel lettino sarebbe finito lui, Roger, nel caso di sconfitta. Tutto sfiniva e finiva come sapete, in un set che era ormai un set, come il Match Point, uno dei film più belli di Woody Allen, da ieri uno dei preferiti di Roger Federer. Stremati e felici andavano a nanna Roger, Mirka e i rogeriani. Non mancando di lasciare una carezza per Andy. Più di una carezza.