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 2009  luglio 04 Sabato calendario

IL MOBILIERE FA IL CINESE PER DIFENDERSI DAI DAZI RUSSI

«L’alternativa, in caso di emergenza, è passare dall’Estonia», racconta un piccolo artigiano veneto con l’acqua alla gola. Sdoganare là, spacchettare e re-imballare i mobili sotto l’etichetta made in China. « l’unica per tenere i dazi bassi e non morire di tassazione extra. Ma puoi farlo una volta, due, l’italiano furbo e levantino, poi è troppo rischioso, e se ti beccano sei finito...».
La linea del Piave dei mobilieri trevigiani contro la Russia di Vladimir Putin comincia a fibrillare lo scorso dicembre, quando a Mosca scoppia la grana dogane. I dazi sui mobili d’importazione passano in pochi giorni dal 30 al 45% sul valore della merce in fattura per le camere e le sale da pranzo.
Non solo. Per evitare che i compratori russi dichiarino importi più bassi per pagare meno, scatta un meccanismo infernale collegato al peso della merce nei container, per cui a ogni camion di mobili viene dato d’ufficio un valore presunto di 115mila dollari. Un’impennata che sta mandando fuori mercato l’arredamento italiano.
Fiore Piovesana, 69 anni che sembrano dieci di meno, prima di fondare a metà anni 80 la Camelgroup, ha insegnato per 28 anni letteratura inglese al liceo scientifico di Vittorio Veneto, Alta Marca trevigiana. Colline languide e vigneti, stalle e prosecco, affacciati su capannoni e capannoni pieni di mobili, braccia slave, odore di colla e rumore di fresa. Lo si vede bene salendo a Col San Martino, sopra Farra di Soligo, dove "il Poeta" Andrea Zanzotto guidò un’epica battaglia antispeculazione (il quartiere del Piave è il regno dei mobilieri oggi in panne).
Sullo sfondo, storie di grande miseria, di pellagra,di vedovebianche per nove mesi l’anno riscattate da un trentennio di industrialismo ossessivo. Fabbriche dappertutto, anche dentro fienili e porcilaie. Da mezzadro a metalmezzadro a padroncino. L
a Camelgroup del signor Fiore si trova a Orsago, un pugno di chilometri da Vittorio Veneto verso il confine con la provincia di Pordenone, e dà lavoro a 40 dipendenti (25 milioni il fatturato 2008) oltreché ai suoi tre figli: Luca, che parla correntemente il russo (è stato appena premiato dalla camera di commercio siberiana), copre il mercato dell’Est, e fa consulenza alle imprese tricolore che vogliono buttarsi sul mercato russo e ucraino; Paolo, che si occupa di gestione interna dopo essersi fatto le ossa all’investment banking di Credit Suisse First Boston a Londra; e Francesca, che cura il commerciale.
 una storia metafora, quella dei Piovesana. Dopo aver insegnato al liceo, infatti, il signor Fiore si prende un anno sabbatico. Gira un po’ per il mondo,la curiosità non gli manca, intercetta l’autunno della guerra fredda, il tramonto dell’Impero dei blocchi e il primo embrione di globalizzazione e capisce che anche dal piccolo e laborioso Veneto a un niente dalla Gorizia della cortina di ferro comunista si può partecipare alla nuova corsa all’oro. «In quei mesi – spiega al telefono da Mosca dove sta cercando di capire come liberarsi dal cappio dei dazi – mi arrangiavo facendo l’interprete per qualche mobilificio pioniere dell’export». Da cosa nasce cosa, «e visto che c’era spazio e un intero mondo si stava per aprire mi sono buttato. Con 300mila lire decido di appoggiarmi al telex di un amico. Mando avanti le prime proposte,i primi cataloghi.All’inizio acquistavo e rivendevo prodotti finiti – ricorda con una punta di romanticismo – poi ho scoperto un terzismo sapiente sul territorio a cui appaltare le lavorazioni».
Arriva così il primo capannone e il boom del mercato americano, «dove fino al 2002 abbiamo esportato il 70% del nostro arredamento ». Poi il crollo del dollaro, le Torri gemelle, l’ingresso dei cinesi nel Wto e la successiva invasione del mercato Usa attraverso "the box", l’inconfondibile container, «la riconversione obbligata sui mercati dell’Est: Russia, Ucraina, Polonia. Dove ormai esportiamo il 100% delle nostre produzioni ». Camere comode e divani per i nuovi ceti medi russi. Senza farsi mancare nulla, come le luci led Rgb per la cromoterapia incassate nei comodini del modello di camera Decor, perché anche i sogni dei bimbi post sovietici vanno coccolati.
Un bengodi per molte imprese italiane. L’Ice, le associazioni di categoria, le Camere di commercio non a caso spingono molti piccoli a consorziarsi per investire su questi mercati: nuovi prodotti, nuovi cataloghi, partecipazione a fiere e tanta, tanta pubblicità. Nel frattempo si aprono magazzini e store in joint venture con il distributore locale e i famosi negozi dedicati bi o trimarca. «I famosi Italian gallery che tanto fanno impazzire il ceto medio russo», sorride Piovesana. Un po’ come le famiglie brianzole che sciamavano alla Campionaria di Milano nel dopoguerra, «le signore che siedono degnissimamente sui divani dei bravi mobilieri di Lissone» raccontati da un inarrivabile Carlo Emilio Gadda.
Nel 2007 gli investimenti cominciano a dare ritorni importanti. Nel 2008 il fatturato italiano del settore arredamento (escluso il legno) è pari a 23 miliardi di cui il 52%, cioè 12 miliardi, esportati. Il 23% prodotto solo tra Treviso e Pordenone, il primo distretto del mobile in Italia, davanti anche ai colleghi della Brianza, divisi ormai su tre province (Milano Monza e Como), e Pesaro- Urbino. Mentre l’export russo schizza del 58,6% sul 2007, dopo un decennio di grande crescita, grazie proprio ai nuovi sbocchi centro europei in forte espansione, capaci di assorbire prodotti di livello medio-alto in quote importanti. «Certo c’erano già i dazi, però non proibitivi», precisa Piovesana.
Poi, all’improvviso, lo "sboom". Dopo l’estate arriva la crisi, il mercato si pianta di colpo, ordinativi e commesse a picco e le dogane che impazziscono. «C’è chi dice per sostenere la produzione interna, chi per inefficienza delle autorità russe, incapaci di controllare la periferia dell’ex impero che impone alle sbarre di confine balzelli extra. Sta di fatto che da gennaio siamo in piena emergenza. Le nostre merci, camerette e sale da pranzo, diventano invendibili per la middle class russa», la più colpita nell’acquistare il mobile italiano non di nicchia.
Nei primi 4 mesi del 2009 le commesse crollano del 30-40%, insieme al valore del rublo sull’euro (-30%). Non solo Russia, l’epicentro del business triveneto, ma anche i paesi di corona, Ucraina e Polonia, rivna e zloty. Nel frattempo il sistema bancario chiude i rubinetti del credito al consumo e molte piccole banche locali congelano i risparmi privati per puntellarsi, prive di solidità finanziaria e di ombrelli pubblici di protezione. Nella vicenda di Fiore Piovesana e dei piccoli dell’arredo veneto alle prese coi superdazi russi c’è insomma tutto quel che si può chiedere a una moderna guerra di mercato, una miniatura di tutti i nodi oggi sul tavolo: lo tsunami finanziario globale che scuote i territori produttivi, le scorciatoie cinesi, un’economia italiana forse troppo sbilanciat a sull’ex port, il glob alismo messo in tensione da un miope revanchismo protezionista, il cinismo della Grande Russia, l’ordine sparso italiano sul made in Italy, la scarsa reattività della diplomazia europea, le regole del commercio mondiale senza reciprocità, e la voglia incessante di mettersi in proprio (Piovesana prima insegnava) e di non mollare mai dei padroncini che vogliono capire il da farsi prima eventualmente di diversificare un’altra volta o lanciarsi in altri settori. Come fece quella volta nella vicina Spresiano Adriano Gionco,l’imprenditore- scrittore, che per anni ha commerciato in legnami, ma siccome il settore è andato in crisi per non fallire si è reinventato senza piangersi addosso costruttore di cofani funebri in legno, ramo "estremo saluto". «Le bare dell’infinito », come le chiama lui. Con tanto di pubblicità (poi ritirata) che fece scalpore ma indubbiamente d’impatto: «Muori, e diventeremo amici& ». Al netto del lugubre, la prova provata di uno shumpeterismo applicato e diffuso in Nord-Est come in pochi altri posti sulla terra.
Che fare, dunque? Ovviamente «ci stiamo organizzando», racconta Piovesana. «Abbiamo fatto parecchie riunioni con la Federlegno Veneto. Abbiamo chiamato l’Ice e le associazioni di categoria, a cominciare da Unindustria Treviso, in cui siedo nel direttivo. Berlusconi è amico del Putin, giusto? Va in giro a dire che lui è l’arbitro di un nuovo accordo con la Russia, e tra Russia e Stati Uniti, Barak Obama e Dimitri Medvedev, dopo il precedente di Pratica di Mare? Bene. Allora intervenga. Non c’è solo l’Eni e il gas, sapete. Il made in Italy non basta decantarlo alle fiere e nei convegni, bisogna sostenerlo concretamente. Le imprese vorrebbero capire quali sono i criteri con cui vengono applicati i dazi reali: valore della merce? Peso? Entrambe le cose? Altrimenti qui va tutto gambe all’aria. Export, indotto, fornitura, territorio. Qualche mese e salta tutto, davvero». Verniciatori, assemblatori, corniciai, intagliatori, decoratori. Una sapienza artigiana che rischia di finire nel cestino. Anche perché il 70-75% dell’export italiano di comparto in Russia è mobile classico, tradizionale. «A loro piace ancora il legno che si vede». Ma questo coinvolge nella realizzazione un numero di terzisti artigiani molto alto, un numero di passaggi di filiera più numeroso rispetto al mobile liscio di design. Per questo lo "sboom" spaventa.
«Un’impresa come la nostra,infatti, che non incorpora tutta la filiera produttiva, vive di fornitori. Se un artigiano o una pmi di terzisti va in crisi per noi è un disastro», si lamenta Piovesana, che lavora con circa 40 aziendine dell’indotto diffuso. Specie in un paese in cui il 13,2% delle imprese è a rischio insolvenza e i tanti subfornitori che non incassano le fatture dai mediograndi in difficoltà rischiano di trasformarsi, esaurito l’effetto della cassa in deroga, nel vero baco dell’economia reale.
«L’altro giorno – dice quasi sottovoce Mr Camelgroup – si sono presentati due fornitori con le lacrime agli occhi. Ci faccia fare qualcosa, signor Fiore, qualsiasi cosa. Anche tagliare il prato, o qualche lavoretto in casa. Non ci costringa a licenziare gente che lavora con noi da 20 anni».
La previsione purtroppo è quella di un ulteriore calo nelle vendite e negli ordinativi almeno fino a settembre, con rischi reali per l’occupazione e la tenuta delle aziende. Il -30/40% del primo quadrimestre è diventato ”50/60% di maggio/ giugno. «Chi come noi ancora non ha messo in cassa i propri dipendenti, è perché sta facendo smaltire le ferie arretrate, un ultima piccola valvola di sfogo» spiega l’imprenditore. Tolte quelle agostane tradizionali, infatti, le vacanze medie accumulate per ogni addetto nelle pmi dell’Alto Piave sono di circa 60 giorni. Molti altri aspettano l’autunno per capire che fare: chiudere, ripartire o diversificare. Nel frattempo la cassa nelle ultime tre settimane si è impennata. Sono a rischio asfissia, nell’indotto, circa 150 microimprese. Mille addetti a un passo dal lastrico. «E se non interviene la politica – conclude – questa volta non so proprio come faremo».