Varie, 5 luglio 2009
BAULI, ALEMAGNA E MOTTA PER VOCE ARANCIO
La multinazionale svizzera Nestlé, proprietaria dei marchi Alemagna e Motta, ha ceduto la divisione dei «dolci da ricorrenza» (sarebbe a dire panettoni e colombe) alla Bauli, l’azienda di Verona che da sola copre oltre un quarto del settore. Nestlé terrà il reparto dei gelati e dei surgelati.
Oltre ai marchi, la multinazionale ha ceduto anche lo stabilimento produttivo di San Martino Buon Albergo, in provincia di Verona, dove fra fissi e stagionali lavorano circa 800 dipendenti. Dalla Nestlè fanno comunque sapere che non hanno intenzione di lasciare l’Italia. Anzi, sono pronti nuovi investimenti: 400 milioni di euro all’anno, in particolare nei settori della pasta fresca, dei surgelati e del dolciario.
Secondo la Coldiretti, gli italiani, durante le scorse feste di Natale, hanno assunto in media 15-20 mila chilocalorie in più e sono ingrassati di due chili circa. In tutto, tra il pranzo di Natale e i cenoni della Vigilia e di Capodanno, hanno ingollato oltre 100 milioni di chili tra pandori e panettoni, 60 milioni di bottiglie di spumante, 20 mila tonnellate di pasta, 8 milioni di chili di cotechino e frutta secca, pane, carne, salumi, formaggi e dolci per un valore complessivo di oltre 5 miliardi di euro.
Dagli ultimi dati disponibili il panettone tradizionale figura ancora al primo posto nelle vendite (con il 41,3%) seguito con il 32,1% dal pandoro tradizionale. Panettone e pandoro nelle versioni ”speciali” (cioè arricchiti con creme varie o ricoperti) hanno rappresentato il 19,4%. Ogni famiglia ha comprato circa 3 chili e mezzo di «dolci da ricorrenza».
Giro d’affari dei «dolci da ricorrenza» tra Natale e Pasqua: circa 600 milioni di euro.
Nella Bibbia, Betlemme è chiamata ”Beth-Lekhem” (’Casa del Pane ”): circondata da campi di frumento, era un granaio, e proprio lì doveva nascere per i cristiani, il Pane per eccellenza. Il pane divenne poi il cibo sacro di Natale, arricchito di uva passita.
Varie teorie sulle origini del panettone. Nel quindicesimo secolo un tale Ughetto degli Atellani, falconiere ducale, s’innamorò di Adalgisa, figlia di fornaio. I genitori di lei odiavano Ughetto, che però riuscì lo stesso a farsi assumere come garzone nella bottega, in crisi di clientela. Ughetto prese il pane, ci aggiunse del burro e della frutta tritata. Gli affari ripresero ad andare, e Ughetto potè sposare Adalgisa. Altra teoria: una certa suor Ughetta, per dare allegria al suo povero convento, inventò per il Natale un pane dolce. Terza teoria: durante una festa alla corte di Ludovico il Moro nelle cucine del palazzo il dolce preparato con mille decorazioni andava afflosciandosi. Lo sguattero Toni allora impastò farina, uova, zucchero e tanto lievito, aggiungendo infine l’uvetta. Portato a tavola, il nuovo dessert ebbe gran successo, tanto che gli invitati gridarono: «Evviva il pan de’ Toni».
Le origini del pandoro si legano al ”pan de oro”, dolce conico della Serenissima riservato ai nobili, ricoperto da sottili foglie d’oro zecchino. Tolto l’oro, questo dolce diventò nel 1260 una specialità natalizia veronese detta ”nadalin”, basso, a forma di stella a otto punte, glassato in superficie. Il ”nadalin” fu creato per festeggiare il primo Natale dei Della Scala divenuti Signori di Verona. Nell’Ottocento il dolce cambiò forma: venne alzato, le punte ridotte a cinque, tolta la glassatura e chiamato pandoro.
Mario Monicelli si vanta di digerire tutto, tranne il panettone di cui, peraltro, è golosissimo.
Propendono per il pandoro Nancy Brilli e Michelle Hunziker.
Giacosa, librettista della Bohème di Puccini, deciso a dimettersi a un passo dal terminare l’opera. Giulio Ricordi lo convinse a non smettere regalandogli un panettone «gargantuesco, anzi pantagruelico».
Il pandoro più venduto: Bauli. Il panettone più venduto: Motta.
Angelo Motta, da Villa Fornaci di Gessate, nato nel 1890, padre cocchiere, madre lavandaia, era già garzone di panetteria quando arrivò a Milano con mezza lira in tasca. Nel 1919, comprando per settecento lire le attrezzature di un panettiere, in via Chiusa aprì il suo forno. Subito si sparse la voce di quant’era buono il panettone di un «certo Motta». Nel 1921 arrivò Gioacchino Alemagna a fargli concorrenza: la città si divise su chi faceva il dolce più buono.
Negli anni Venti in Galleria Carlo Alberto (attuale via Mazzini) Angelo Motta inaugurò un negozio da favola: baristi e commesse eleganti, arredi di grande classe, e soprattutto una specie di cabinovia aerea che trasportava gli acquisti dal banco di vendita alle signorine della cassa.
Anni Cinquanta: lo stabilimento Motta in viale Corsica sfornava ogni giorno 1.300 quintali di panettoni:messi in fila facevano 35 chilometri. 600.000 galline deponevano le uova necessarie. Esportazioni in 75 paesi.
Nel 1934 Cesare Zavattini inventò il ”Premio di bontà”, sponsorizzato da Angelo Motta. Le storie dei vincitori ogni 26 dicembre finivano sulle terze pagine del Corriere della Sera. Durerà fino agli anni Ottanta.
Nel 1948 Angelo Motta inventò il gelato su bastoncino al gusto fior di latte.
Morì nel 1957, il 26 dicembre: in piene festività natalizie.
Negli anni ”70 la Motta, società per azioni, fu venduta alla Sme, società finanziaria del settore agro-alimentare del gruppo Iri. Quando la Sme comprò anche l’Alemagna, la divisione gelati di Motta fu inglobata nella Italgel, mentre Motta e Alemagna formano l’Unidal (Unione industrie dolciarie e alimentari), in seguito ”Gruppo Dolciario Italiano”. Nel 1993, l’Iri, a seguito della privatizzazione di alcune divisioni da parte dello Stato, vendette i marchi Italgel (Gelati Motta, Antica Gelateria del Corso, La Valle degli Orti) e il Gruppo Dolciario Italiano (Motta, Alemagna) alla multinazionale svizzera del settore alimentare Nestlè.
Il milanese Gioacchino Alemagna, detto Gino, classe 1892, orfano di madre a 14 anni (il padre già non c’era più). Coi suoi fratelli Emilio e Aldo (7 e 3 anni) fu portato a casa di un cugino, nel piacentino. Considerato adulto, gli dissero di mantenersi da solo. Tornò a Milano e andò a lavorare da un fornaio: la sera era talmente stanco che per dormire si buttava sui sacchi di farina anziché tornare nella casa che divideva con un altro garzone.
Facendo il cuoco per i militari inglesi nella Prima guerra mondiale mise da parte qualche soldo. Con quelli, nel 1921, aprì il suo primo forno, in via Sarpi. Nel ”32 arrivò anche il caffé in piazza del Duomo. Per i milanesi diventò una moda darsi l’appuntamento in centro, sotto la grande «A» che svettava sulla porta d’ingresso.
La volta che riuscì a comprare in una galleria di New York una coppia di cigni in porcellana cui da tempo faceva la corte Nelson Rockefeller. Questi più volte telefonò ad Alemagna (che lo faceva parlare con l’autista poliglotta marocchino, Amaru) per offrirgli dei soldi in cambio delle statuette. Ogni volta il milanese alzava un po’ il prezzo, consapevole che comunque non le avrebbe vendute mai.
Il figlio Alberto, laureato alla Bocconi di Milano, guardando alle cose americane ebbe l’idea delle merendine, dei gelati confezionati, delle caramelle Charms. Negli anni Sessanta si lanciarono nel business degli Autogrill. Nel 1970 Alberto cedette il 50% dell’azienda alla Sme finché, cinque anni dopo, decise di vendere anche il resto: l’Alemagna fu unita alla Motta e prese il nome di Unidal. Gioacchino Alemagna era già morto (1974).
Nel 1974 l’Anonima Sequestri rapì Daniele, 7 anni, ultimo dei quattro figli di Alberto Alemagna. Il bambino fu rilasciato dopo una settimana, si dice dietro pagamento di un riscatto di cinque miliardi di lire. L’avvocato Peppino Prisco fece da intermediario. Altra disgrazia per Alberto Alemagna: nel 1990 si suicidò il suo secondogenito Gino. Alberto è morto nel 1995.
Peppino Prisco: «Alemagna - Motta era un po’ come il derby Milan – Inter. Alberto era consigliere dell’Inter, e quindi i milanisti preferivano comprare il panettone della Motta. E infatti nel ”75, quando la Motta e l’Alemagna si fusero nella Unidal, io ci rimasi un po’ male: era come se si fossero unite l’Inter e il Milan».
Quando Motta e Alemagna finirono nella Sme i giornali scrissero: «Panettone di Stato».
Più del 90% delle persone conosce il marchio Bauli.
Ruggero Bauli, nono di tredici figli, nacque nel 1895 a Nogara, un comune veronese ai confini con il Mantovano. Il padre Corilao gestiva un panificio che vendeva anche generi alimentari. Non andando bene le cose, Ruggero a dieci anni andò a fare il garzone-apprendista nella pasticceria Olivo (per il ”disturbo” il titolare si prendeva qualche soldo tutti i mesi).
Diventato pasticciere, negli anni Venti Ruggero Bauli produceva cinquemila paste al giorno, oltre al pandoro. Nel 1927 lasciò l’Italia in cerca di fortuna in Argentina. S’imbarcò con i suoi macchinari (non assicurati) sulla nave Principessa Mafalda, che affondò al largo del Brasile. Salvo per miracolo, dopo un periodo a Rio de Janeiro durante il quale fece l’autista, andò a Buenos Aires per lavorare in una pasticceria pomposamente battezzata Paris.
Ruggero Bauli tornò in Italia nel 1936. Con la moglie Zina mise in piedi un laboratorio di pasticceria al piano terra della loro casetta, in via Disciplina al centro di Verona. Poi arrivò anche un negozio.
Ruggero Bauli mise il pandoro anche nel logo della sua pasticceria: una cornice rettangolare con sfondo bianco, che presentava al centro un triangolo di tinta scura, all’interno del quale compariva la sagoma bianca di un pandoro, sovrastata dalla scritta Bauli, anch’essa bianca e in corsivo, con le astine delle lettere B e I che si congiungevano con il dolce.
Cambiamenti del marchio: verso la metà degli anni Quaranta, Ruggero Bauli ridisegnò personalmente il marchio aziendale e convocò il suo fornitore di carta oleata, Bollati & Mosca, per vedere il campionario e scegliere il colore dei nuovi incarti. L’avversario Melegatti aveva appena scelto il blu per i suoi pandori, Bauli ripiegò per una carta verde scuro. Dopo una decina d’anni, quando la produzione Bauli fu estesa anche ai panettoni e alle colombe pasquali e la distribuzione in tutta Italia era garantita da furgoncini Fiat 1100 decorati con il logo aziendale, il più affermato pubblicitario veronese dell’epoca, Tolmino Ruzzenente, fece notare a Ruggero Bauli che il suo marchio sarebbe stato più visibile su uno sfondo viola scuro. E viola fu. Anni dopo fece sostituire il viola con il lilla, il colore che ancora contraddistingue il marchio. La scritta Bauli, prima in stampatello e adesso in corsivo, è sempre stata bianca con bordi oro e viola.
I figli di Ruggero Bauli: Alberto, Carlo, Adriano e Rosamaria (l’unica che non partecipa alla vita dell’azienda).
Il 9 ottobre 1996 un misterioso incendio, partito da un magazzino nuovo di zecca, distrusse mezzo stabilimento, fermandosi poco prima dei forni. Danni per 40 miliardi di lire.
Lo stabilimento Bauli di Castel d’Azzano (Verona): 122 mila metri quadri di superficie, 80 mila dei quali coperti, dieci linee provvedono a lavorare annualmente più di 500 mila quintali di prodotti. Durante il periodo natalizio sforna nove milioni di pandori e altrettanti panettoni. Durante quello pasquale quattro milioni di colombe e tre di uova di cioccolato.
Fatturato Bauli 2007/2008: 314,8 milioni di euro.
Solo nello stabilimento Bauli di Castel d’Azzano in un anno si utilizzano 120.000 quintali di farina e 54.000 quintali di uova.
I dipendenti Bauli 2007/2008: 1.218, tra fissi e stagionali.
Anche i biscotti Doria li fa Bauli.
La Bauli oggi: quattro grandi impianti tecnologici e innovativi, quota di mercato del 30% e tasso di notorietà del 97%. Il 5% dei ricavi se ne va in pubblicità.
Sogno di Alberto Bauli, figlio del fondatore Ruggero, sessantanove anni, da quindici presidente del consiglio d’amministrazione dell’azienda: «Ho sempre desiderato il mare a Verona, è l’unica cosa che ci manca».
Ruggero Bauli a chi gli chiedeva quale fosse la ricetta del pandoro rispondeva: «Un po’ più, un po’ meno, un po’ prima, un po’ dopo».