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 2009  luglio 04 Sabato calendario

Per un po’ di tempo non sentire­mo più parlare degli Oasis. Cinque anni, forse di più. Se il gruppo inglese è pronto ad entrare in stand by causa logoramento, impossibile pensare che si fermi la lingua più tagliente del rock, quella di Noel Gallagher, mente e chitarra della band

Per un po’ di tempo non sentire­mo più parlare degli Oasis. Cinque anni, forse di più. Se il gruppo inglese è pronto ad entrare in stand by causa logoramento, impossibile pensare che si fermi la lingua più tagliente del rock, quella di Noel Gallagher, mente e chitarra della band. Dalle vetrate di un ufficio del Murrayfield, lo sta­dio del rugby di Edimburgo, il 42 enne guarda il prato riempirsi di fan (saranno 55 mila alla fine), lancia uno sguardo paternalistico al palco dove suo­nano gli Enemy che lui stesso ha scelto per aprire la serata e fa il punto: sul futuro suo, del gruppo e del rock, sull’inutilità delle rockstar impegnate alla Bo­no e Chris Martin, sulla politica inglese. Chiudete il tour alla Fiera di Milano-Rho del 30 agosto e annunciate un fermo di 5 anni: i fan temono il peggio... « solo un numero, avrei potuto dire dieci... ma gli Oasis non si scioglieranno. soltanto che in que­sto momento non vedo cosa potremmo fare anco­ra. Tour più grandi? Più soldi? Ho bisogno di qual­cosa di diverso per tenere vivo il mio interesse». Ha già pianificato un album come solista? «No, no. Il mio ideale sarebbe entrare in un’altra band, suonare la chitarra e non dovermi preoccupa­re di cantare e di scrivere canzoni». Come vanno le cose fra lei e suo fratello? «Come sempre. Possiamo far funzionare gli Oa­sis senza per questo dover essere i migliori amici. Jagger e Richards non lo sono di certo». Non sono nemmeno fratelli. «Capisco che la gente lo trovi affascinante, ma per me è noioso. Inutile dire bugie, raccontare che andiamo d’accordo. Fino a che funzioniamo va be­ne ». Durante la vostra assenza nasceranno i nuovi Oasis? «Per come è il music business oggi non penso che ci sarà una band grande come noi, che vende così tanti dischi». Cosa avete di diverso? «Questione di tempi: siamo arrivati molto prima di Internet, ipod e cellulari. Se partissimo domani avremmo già un sito, Facebook, dovremmo regala­re musica... Quando abbiamo iniziato, se volevi sen­tirci dovevi essere dove suonavamo. Quando è usci­to il primo album non esistevano i masterizzatori, dovevi comprartelo. C’era il passaparola e così si re­alizzava il contatto con il pubblico. Oggi qualcuno filma un concerto col cellulare e in diretta lo man­da all’amico in Brasile... Pare che alla gente basti vedere gli spettacoli su Internet». Perché la gente viene a vedervi? «Noi saliamo sul palco e suoniamo. Sono stato a tanti concerti negli stadi: tutti parlano di politica e nessuno suona. Eppure la gente è lì per la musica. In uno show di U2 o Coldplay c’è sempre un mes­saggio sui poveri o sulle persone che muoiono di fame. Va bene, ma non possiamo solo passare una bella serata? Ci dobbiamo sentire per forza in col­pa? Pensiamo poi ai palchi semoventi, al second sta­ge per il set acustico... tutto questo non ha senso. Preferiremmo suonare nei club, ma troppe perso­ne rimarrebbero fuori. Non siamo come gli U2 do­ve tutto diventa un affare di congegni. Non voglio dire che la loro carriera dipenda dal palco spettaco­lare, ma non è quello che facciamo noi». Che rapporto ha con la tecnologia? «Se avessi 15 anni, avrei un computer e sarei su Facebook. Ma non ho un computer e ci metto un’ora per un’email. Analizziamo la cosa da due punti di vista. Internet è brutta perché smette di far interagire la gente. Se portassimo tutto agli estre­mi, in una dimensione quasi fantascientifica, non avremmo più bisogno di andare in un negozio, in banca, alla polizia, non avremmo più contatti con esseri umani che non siano i nostri odiati familiari. Ma c’è anche una parte buona: con la gente connes­sa, non ci potrà essere un altro olocausto, come ve­diamo ora in Iran». Hai mai pensato di aver perso il polso di quel­lo che faceva? «Non lo puoi dire fino a quando non ti guardi indietro. E adesso posso vedere che fra Knebworth 1996 (250 mila bi­glietti per due concerti ndr) e la fine del tour di ’Be Here Now’ ci facevamo di troppa droga e pensavamo poco alla musica. Ma non rimpiango di averlo fatto». Non rimpiange ma ha smes­so... «Guardo a Chris Martin che dice di non aver mai preso dro­ghe in vita sua e penso che sia un idiota. Drogarsi è la cosa più bella dell’essere in una rock­band. Fino al 1998 ci avrò speso almeno un milione di sterline, poi ho smesso perché fa male alla salute, al cervello, alla vita, alle persone che ti stanno attor­no. Ma mentre la usi, tranne l’eroina che ammazza la gente e che non ho mai provato, ’mamma mia’ come dite voi». Negli Anni 90 eravate icone della cool Britan­nia, l’Inghilterra vincente del New Labour. Blair vi invitò a Downing Street. finita un’era? «Sono cresciuto con il Labour all’opposizione. Sentivo i loro discorsi su scuola e salari minimi e pensavo avessero ragione. Poi sono entrati al gover­no e, wow, li ho conosciuti. Col tempo abbiamo scoperto che sono come tutti gli altri: è stato come venire a sapere che non esiste Babbo Natale. Non voterò più, tanto non cambia nulla».