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 2009  luglio 04 Sabato calendario

MICROCREDITO, ORA I POVERI SI RIBELLANO



Tre anni fa, anche chi non aveva mai sentito prima il suo nome ini­ziò a ammirare Muhammad Yunus come una sorta di icona globale. Nella motiva­zione del Premio Nobel per la pace che ricevette nel 2006 con Grameen Bank, ve­nivano sottolineati gli «sforzi per creare sviluppo sociale ed economico dal bas­so » e l’abilità nel «tradurre una visione in azioni concrete a beneficio di milioni di persone, non solo in Bangladesh».

Fu l’apoteosi del microcredito, diffuso a quel punto in oltre cento Paesi. Da allo­ra Yunus, il figlio di un orafo di Chitta­gong che si fece professore di economia e poi «banchiere dei poveri», per molti occidentali è diventato qualcosa di simi­le a un santo contemporaneo. Lui ci con­vive, nel suo studio al quarto piano del grattacielo di proprietà di Grameen Bank a Dhaka: non lo disturba neanche il so­spetto che questa venerazione sia un in­granaggio inconscio attraverso cui nei Paesi ricchi ci si autoassolve del dramma della povertà. «I sentimenti nei miei con­fronti sono genuini – osserva – poi pe­rò le persone si sentono impotenti a cam­biare il mondo».

Nelle sue stanze, Yunus dà un’impres­sione di profondità semplice e priva di fanatismo. La saletta d’angolo dove lavo­ra sembra più la biblioteca di uno studio­so che l’ufficio di un banchiere. Agli altri venti piani dell’edificio, uno dei più belli in città, operano molte delle società da lui fondate con il marchio Grameen – dalla sanità, all’energia, all’informatica, alle telecomunicazioni, al tessile, al setto­re alimentare – in cui Yunus figura rego­larmente presidente del consiglio d’am­ministrazione.

Per la dimensione del Bangladesh, al­cuni di questi gruppi sono colossi indu­striali e leader di mercato ( vedi sotto) ma il quartier generale di Grameen Bank ha un’aria decisamente austera: luci al neon, mobilio spaiato e di risulta, com­puter di quasi 20 anni fa, faldoni accata­stati come in una banca di metà ”800. Una signora velata dorme profondamen­te sulla scrivania delle segretarie, poi di colpo si sveglia e prende una chiamata. Nella sua lezione alla cerimonia del No­bel nel 2006, Yunus disse che la banca «di routine è in utile» (pari a 13,5 milio­ni di euro nel 2008) e certo i risultati so­no impressionanti: quasi otto milioni di clienti in 85 mila villaggi del Bangladesh prendono il microcredito di Grameen. L’azionariato è composto al 96% dalle donne mutuatarie (il resto è dello Stato), Yunus è «un dipendente» e sui benefici del microcredito esiste ormai una lettera­tura vasta e seria.

Ora la banca deve fare i conti con sfide nuove. Per aiutare i villaggi colpiti dai ci­cloni sempre più frequenti per l’effet­to- serra, dice Yunus, «diamo nuovi pre­stiti anche se non cancelliamo quelli pre­cedenti: semmai estendiamo le scaden­ze », ampliando il portafoglio crediti. Fon­ti ufficiali di Grameen precisano che do­po Aila, l’uragano che un mese fa ha di­strutto i raccolti per 5 milioni di persone e le case di centinaia di migliaia, Grame­en ha cessato di incassare le rate e dato cibo, acqua, aiuti sanitari.

Visto da Kalapara, 300 chilometri più a Sud sul Golfo del Bengala, il quadro ap­pare però alquanto diverso. Qui Aila ha devastato i campi, ucciso il bestiame, contaminato i pozzi. E la filiale di Tiakha­li Kalapara di Grameen Bank è passata a riscuotere la sua rata settimanale il gior­no dopo il ciclone, racconta la 35enne Ta­posi (il cognome non lo dà), portavoce di un gruppo di dieci donne clienti. Aiuti non se ne sono visti, mentre a novembre 2007 con il ciclone Sidr (10mila morti) la banca concesse l’equivalente di quasi cin­que euro per cliente, pari a due giorni di guadagno di un guidatore di risciò, e un’estensione di sei mesi delle scadenze. «Stavolta non hanno atteso neanche po­che ore per riscuotere», dice Taposi.

Vista dai villaggi del Bangladesh, Gra­meen Bank sembra un’istituzione dete­stata e temuta. Quasi impossibile trovare qualcuno disposto a parlarne bene. Ja­mal Matubbar, 51 anni, consigliere co­munale indipendente di Kalaparouri, un centro a 20 chilometri dal Golfo del Ben­gala, è drastico: «Quella banca sta crean­do enormi problemi alla nostra comuni­tà, succhia il sangue alla gente come le formiche rosse».

Taposi e il suo gruppo di co-mutuata­rie parlano, e a tratti piangono, come si sentissero prigioniere di Grameen. Fra le dieci nessuna ritiene di aver mai avuto un beneficio dai suoi prestiti. Il primo problema è la celebrata (in Occidente) obbligazione di gruppo nel caso di insol­venza individuale: gli altri clienti devono ripianare. Secondo la banca è un modo per responsabilizzare le comunità. Ma Ta­posi e le sue amiche devono autotassarsi quando una sola manca un pagamento, andando a loro volta in difficoltà: ciò mette Grameen Bank più al riparo dalle perdite ma crea liti e denunce nei villag­gi. La banca sostiene che non punisce mai gli insolventi («Non usiamo stru­menti legali»), ma non può ignorare che nei gruppi di clienti si litiga, ci si denun­cia, ci si pignora a vicenda e si entra in cause che a volte finiscono con la prigio­ne del debitore. A Kalapara, molti credo­no che questo sistema sia volto a scarica­re su altri, cioè sugli stessi clienti, il co­sto dei ricorsi e delle sofferenze. «Se ho un reddito di un dollaro – si chiede Ta­posi – perché devo pagare più di un dol­laro per un mutuo non mio?».

Un ulteriore problema è il nuovo credi­to preso per sostenere il vecchio, specie quando i prestiti di Grameen vengono usati per comprare da mangiare e non per un’attività. quanto accade spesso in villaggi colpiti da cicloni o inondazio­ni, a maggior ragione perché Grameen inizia a riscuotere le sue rate settimanali già una settimana dopo aver concesso il credito. I casi in cui manca il tempo di far fruttare una nuova attività sono fre­quenti, quindi gli oneri da interessi si ac­cumulano: secondo Sheikh Hasina, pri­mo ministro del Bangladesh, possono ar­rivare al 36%.

Renu Hawlader, 25 anni, racconta di aver chiesto un prestito da 20 mila taka (205 euro) per ristrutturare il negozio di riso del marito, ma ne ha avuti solo 10 mila («Anche se in otto anni non ho mai mancato una rata»). Dalla prima settima­na e per 50 in totale, come mostra il suo libretto di banca, Renu ripaga ora 200 taka di capitale, 30 di interessi e 20 di «deposito»: fa un onere del 12,5%. Pro­prio il «deposito» è la voce più contesta­ta dalle donne di Kalapara: non figura co­me interesse passivo, ma viene richiesto dalla banca e va su un conto di risparmio che, accusano Renu, Taposi e le altre, la filiale blocca per dieci anni. Ossia, fino a 9 anni dopo l’estinzione del debito. Gra­meen Bank non si impegna ex ante sul rendimento del deposito, ma chi riscatta i risparmi prima dei dieci anni non rice­ve interessi: solo il capitale, eroso dall’in­flazione.

Kanan Bala, 43 anni, racconta: «Mio marito è falegname, dopo sette anni ab­biamo dovuto ritirare il deposito per la bottega e la banca si è tenuta gli interes­si. Sono con Grameen da 25 anni, ma per me non c’è sviluppo: ho provato a lascia­re la banca e per tre volte mi hanno offer­to nuovi fondi».

Il «deposito» ha così un doppio effet­to: vincola le clienti (Taposi dice che cam­bierebbe istituto, se potesse riavere i suoi soldi) e finanzia Grameen Bank. L’at­tività dell’istituto è infatti alimentata per intero dai depositi, a un costo del capita­le dichiarato dell’8,56%.

Grameen Bank contesta la versione di queste donne. Sostiene che pratica un in­teresse fisso del 10%, non richiede garan­zie né depositi, prende impegni preventi­vi sui rendimenti dei risparmi e versa in ogni caso gli interessi. Quanto alle rate re­clamate subito dopo i cicloni, afferma, «questa non è la politica della banca». Se­duto nel suo studio di Dhaka, Yunus pro­pone anche un sistema a colori per qua­lunque prodotto in vendita: «Rosso se nuoce al prossimo, giallo se c’è un dubbio in proposito, verde se non fa alcun male». Le filiali di Grameen nelle campagne del Bangladesh tendono al verde: spesso, so­no gli edifici più imponenti del villaggio.


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TELEFONI E YOGURT, LA RETE DEL PREMIO NOBEL

L’ultima volta che è stato a Washington, Muhammad Yunus ha ricevuto un’accoglienza che per molti capi di Stato resta un sogno: un’ora e mezzo con Hillary Clinton. I due hanno parlato di sanità in Bangladesh e mi­crocredito negli Usa. Infine Yunus ha anche chie­sto aiuto al segretario di Stato per «permettere l’accesso dei prodotti tessili del Bangladesh ne­gli Stati Uniti senza dazi».

Fra i suoi molti ruoli, il premio Nobel è anche presidente di Grameen Knitwear, una società di tessile per l’export con un fatturato pari a 14 mi­lioni di euro sul 2008. controllata da Grameen Kalyan, un’«organizzazione di welfare», e l’ha fondata Yunus stesso insieme a più di 10 altre società, dalle telecomunicazioni all’informatica, all’energia, all’alimentare. In alcuni casi sono lea­der di mercato in Bangladesh, un Paese povero di 160 milioni di abitanti. Quasi sempre Yunus figura come presidente benché, a una richiesta in merito, Grameen non specifica se per queste cariche siano previsti compensi e quali.

Con i suoi «business sociali» Yunus di certo è un grande datore di lavoro del Bangladesh. Di recente ha creato anche una joint-venture parita­ria con Danone sugli yogurt «per portare nutri­mento di qualità ai bambini poveri». L’altro obiettivo dell’impresa è realizzare utili, infatti una vaschetta di yogurt da appena 125 calorie, cioè una merenda, costa come un chilo di riso con cui un contadino nutre la sua famiglia per un giorno per circa un quinto della sua paga. Il caso più interessante resta però Grameen Tele­com, un’impresa fondata da Yunus nel ”95. «Mi chiese di concedergli una licenza di telefonia mobile» ricorda Sheikh Hasina, primo ministro allora ed oggi. L’argomento fu sociale: portare i telefoni nei villaggi, permettere alle donne di far­ne un’attività, connettere il mondo rurale con il mercato. Gli effetti positivi ci sono, riconosce Hasina: il costo di un cellulare è sceso da 3 mila e 10 dollari e Grameen Telecom afferma di avere raggiunto 300 mila villaggi. L’aspetto di affari è però meno discusso. Grameen Telecom nel suo sito presenta come principale attività la distribu­zione «sociale» di telefonini Nokia, acquistabili grazie a prestiti di Grameen Bank. Ma Nokia fa presente di aver cessato il suo programma con Grameen Telecom ed è ormai chiaro che la gran­de fonte di entrate della società guidata da Yu­nus è la sua quota del 38% in Grameenphone, primo operatore di telefonia mobile in Banglade­sh con 21 milioni di clienti, una quota di merca­to di 47%, redditività (Ebitda) sopra al 40% e un utile operativo in forte crescita: quasi 60 milioni di euro al primo trimestre 2009.

 a Grameenphone che Yunus ha trasferito la sua licenza, con l’apporto in investimenti e know-how della Nortel di Oslo che in cambio ha una quota del 62%. Da quando ha vinto il No­bel, Yunus è in lite con Nortel perché reclama per sé il controllo. Nella sua lezione al conferi­mento del premio ha dichiarato che la maggio­ranza dovrebbe andare «alle donne azioniste di Grameen Bank», come fosse la banca a controlla­re Grameen Telecom. Ma Grameen Bank stessa precisa che non esiste una «base legale» del gruppo. Come altre società della famiglia, Gra­meen Telecom – si spiega – è una «no profit», cioè «non ha azionisti e non dà dividendi». L’uti­le viene usato solo per le missioni sociali d’im­presa. Quello 2008 è stato di 5,4 milioni di euro (dividendi 2007), ma a una richiesta su come ve­nisse impiegato, non ci è ancora giunta una ri­sposta.

F. Fub.