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 2009  luglio 04 Sabato calendario

COME GREGOR DI KAFKA: L’ARTE METAMORFOSI

«Sono diventato intellettuale per disperazione. I miei genitori in estate mi portavano nelle proprietà di famiglia in provincia di Salerno. Vivevo una condizione leopardiana, di isolamento, di estraneità. Così ogni giorno leggevo un libro. Li prendevo dalla biblioteca di mio padre e da quella del medico condotto del paese».
Sono i ricordi di Achille Bonito Oliva, seduto nello studio della sua casa al centro di Roma: molti libri alle pareti, disposti in ordine alfabetico; poche opere d’arte, invece. Sculture antiche, un quadro del Seicento, copricapi africani e Buddha del XII secolo. L’arte contemporanea che è il ring su cui Bonito Oliva si muove da 40 anni, è presente solo in termini narcisistici: suoi ritratti dipinti e scolpiti. ABO, come ama farsi chiamare, ha scritto una trentina di libri, ha «inventato» la Transavanguardia, ha curato centinaia di mostre. La ultima fatica è l’esposizione di Peter Greenaway alla Fondazione Cini di Venezia, ha curato «Madre Coraggio: l’arte» in corso a Ravello fino al 27 settembre e sta lavorando alla grande mostra di Gino De Dominicis con cui aprirà il Maxxi di Roma ad aprile 2010.
Lei si è sempre messo in gioco in prima persona...
«Ho fatto del protagonismo personale, del narcisismo, del desiderio di essere bersaglio il mio modo di fare critica. Ho spostato lo statuto di questa da una lateralità proverbiale, silenziosa e masochista alla centralità, alla consapevolezza dell’importanza del ruolo. Io, come Flaubert, dico: la Transavanguardia c’est moi! stato naturale che i pittori che hanno fanno parte del gruppo abbiano guadagnato molto più di me perché loro producono oggetti e io concetti, ma io ho tirato fuori la critica dal silenzio delle biblioteche. Nel catalogo della mostra Amore mio del 1970 c’erano 10 pagine in cui si ripeteva un ritratto che mi aveva fatto Ugo Mulas, poi mi sono autosegnalato su Bolaffi Arte come artista, ho posato come Paolina Borghese e infine anche nudo sulla copertina di Frigidaire con la mia fidanzata, l’attrice Alessandra Vanzi. D’altra parte è stato proprio un libro, La metamorfosi di Kafka a farmi capire precocemente il nesso tra arte e vita».
In un pomeriggio in campagna?
«Sì. Avrò avuto 14 anni e leggere la storia di Gregor Samsa che diventa uno scarafaggio mi gettò in uno stato febbrile di insonnia, di arrovellamento, ero in un dormiveglia allarmato, giorno e notte, perché mi ero così identificato nel racconto che dovevo difendermi, quindi restavo all’erta. Avevo capito che l’arte produce processi di trasformazione. Nello stesso tempo mi aveva colpito il fatto che Samsa, pur gettato in questa condizione drammatica, aveva conservato, nelle sue osservazioni, ironia e umorismo, elementi che mi appartengono. Comunque anche più tardi, quando ho letto Il Processo l’ho vissuto come un personale avviso di reato. Il lettore lì diventa l’imputato».
Dopo «La metamorfosi» ha letto ancora Kafka? un lettore che vuole afferrare tutto un autore nella sua complessità?
«Io dico di me che non sono un possessivo, sono un possidente. Mi piace rincorrere quello che mi piace. E poi sono molto veloce. Mi chiamo Achille».
Avrà anche il suo tallone?
«L’impazienza».
Impaziente anche come lettore? Adesso cosa legge?
«Solo saggistica. Non leggo più romanzi, gli ultimi che ho letto sono quelli di Walser, di Bernhard. E poi rileggo quelli che ho amato da ragazzo».
Per esempio?
«Tra i miei libri formativi ci sono L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares e Mario e il mago di Thomas Mann. Qui sembra prefigurarsi non solo il ventennio ma anche il nostro presente politico, la manipolazione da parte di un personaggio capace di abbagliare il pubblico, di sedurre le folle, di essere un imbonitore e di puntare sulla sottomissione psicologica. un libro premonitore».
Di Berlusconi?
«Dell’Italia d’oggi ma anche del Truman Show».
E i suoi colleghi critici li legge?
«Io appartengo all’ultima generazione di critici totali, quella di cui fanno parte Harald Szeemann, Jean-Christophe Ammann, Kaspar König, Katarina Smith, Rudi Fuchs, capaci di produrre saggi, mostre, teoria, di insegnare, di scrivere sui quotidiani con una strategia operativa. Da qui si è staccata una costola, la figura del curatore. La maggior parte di questi sono maggiordomi della critica, non inventano niente, sono manutentori dell’arte, assecondano i rapporti di forza del mercato e del sistema, senza fare alcuna scoperta né teorica né pratica. La loro massima qualità è quella di arrivare immediatamente appena si suona il campanello. L’esempio più evidente di questa inutilità senza idee è Francesco Bonami, e prova ne sono i suoi fallimenti veneziani: la Biennale e la mostra Italics a Palazzo Grassi. Ma anche i suoi libri "scrivi e getta" in cui tutto si risolve nella ricerca della battuta, senza affrontare mai il suo vero complesso di Edipo che è quello di essere un pittore mancato. Non condivido nemmeno il dinamismo isterico di Hans Ulrich Obrist».
Ci sarà pure qualcuno che le piace tra i curatori?
«Certo: Chiara Bertola, Cristina Collu, Luca Massimo Barbero, Danilo Eccher, Mario Codognato, Carolyn Christov Bakargiev che ora dirige Kassel, ma è anche al Castello di Rivoli, dove non si capisce perché un assessore che porta solo la metà del mio cognome, Oliva, con un piglio decisionista da governo di destra, si ostini a voler nominare un seppur bravo direttore di fiera come Andrea Bellini. Il bellini a Venezia è un aperitivo, ma a Torino è diventato un digestivo. Io dico che, come succede in tutti i musei del mondo, bisognerebbe fare un grande concorso internazionale per titoli scientifici e per colloquio. Vi potrebbero partecipare Carlos Basualdo, Lynn Cooke, Paul Schimmel, Okuwi Enwezor, Massimiliano Gioni, Paolo Colombo, Ivo Mesquita, Eva Meier».
E tra gli storici dell’arte del passato riconosce dei maestri?
«No, io sono nato per partenogenesi. Però ho terminato la Storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, scrivendo la parte dagli Anni Sessanta in poi. Questa integrazione me l’ha chiesta lui e non ha voluto neanche riguardarla. L’ha letta quando era già pubblicata. Argan è stato un grande scrittore manierista, concettoso, dal pensiero profondo. Peccato che poi i suoi allievi, gli "arganauti", non siano stati all’altezza di ciò che avevano promesso».
Spesso anche gli artisti non sono all’altezza...
«Quelli più sopravvalutati di tutti sono Damien Hirst e Jeff Koons, ma non per loro demerito quanto per colpa di una finanza cinica e impersonale che ha investito solo per speculare senza mai avere alcun contatto con l’arte e con gli artisti. Poi c’è Valerio Adami che è un vetrinista, una metastasi di Liechtenstein».
E gli artisti che le interessano?
«Riconosco il valore di due posizioni: quella consapevole dell’identità metalinguistica dell’arte, della lateralità della cultura verso la vita di cui fanno parte Paolini, Clemente, Baselitz, e quella che accetta il conflitto come i gruppi Dada, Fluxus, Gutai, il Lettrismo. Poi ho teorizzato la citazione, il nomadismo: le incarna perfettamente Enzo Cucchi che sintetizza strabicamente il destino filosofico dell’arte di agire dentro un recinto con una specie di furor che lo tiene ai confini tra arte e vita. Con il desiderio dei sapori della vita, dei rumori della vita».