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 2009  luglio 04 Sabato calendario

IL DOPPIO VOLTO DI CIANCIMINO JR


Uno, nessuno e centomila. Chi è davvero Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, l’ex sindaco dc di Palermo che svolse per anni il ruolo di «consigliori» di Bernardo Provenzano? Fino a questo momento, giunto alla non più verdissima età di 45 anni, viene ancora considerato «il figlio di don Vito», sebbene il famigerato genitore sia morto già dal 2002. E questo «marchio» gli rimane addosso perché i magistrati della Procura di Palermo lo considerano ancora il custode del tesoro di Vito Ciancimino. Lui, Massimo, ovviamente nega questo ruolo ed è comprensibile, visto che, se lo ammettesse, si esporrebbe alla scure della legge sul sequestro dei beni di provenienza illecita.
Già, perché in questa commedia pirandelliana il giovane sembra recitare ruoli diversi e, qualche volta, opposti. Dunque: Massimo è condannato dal Tribunale di Palermo a 5 anni e otto mesi per riciclaggio. Il suo processo è in fase di appello. Ma il «figlio di don Vito» è anche in questi mesi un teste d’accusa nel processo intentato dalla Procura di Palermo contro il generale Mario Mori ed altri ufficiali del Ros, accusati (da un altro ufficiale dell’Arma, il colonello Michele Riccio) di aver impedito la cattura del boss Bernardo Provenzano, quando il corleonese viveva la sua allegra latitanza. Ma il ruolo inedito di «grande accusatore», Massimo lo ha via via intensificato man mano che è andata avanti la sua inusuale collaborazione con la Procura di Palermo e non solo. Già, perché nel frattempo il «teste d’accusa» è stato cooptato da altre Procure, interessate alle rivelazioni dell’inedito e inaspettato collaboratore.
Massimo Ciancimino, insieme teste d’accusa e imputato «socialmente pericoloso», oggi ha rapporti con la magistratura di Caltanissetta, di Roma e di Catania: come un pentito. Ma non è così, perché - per esempio - nessuno di questi uffici ha sottoscritto la richiesta di protezione per il «teste d’accusa». La scorta di cui dispone da qualche settimana è stata decisa su iniziativa della questura di Bologna, città in cui Ciancimino risiede. Scorta sì, ma nessun programma di protezione, sebbene di «rivelazioni» il teste ne abbia fatte parecchie. E parecchie sono pure le minacce subìte: in due «pizzini» scambiati tra Matteo Messina Denaro e Bernardo Provenzano - tra la fine del 2003 e l’inizio dell’anno successivo - il primo «rinfaccia» a don Binnu la conclusione della «messa a posto» di una estorsione finita con la scomparsa di 200 milioni di vecchie lire che, secondo Messina Denaro erano andati nelle tasche «del figlio del suo paesano». E se la cosa non finì male fu proprio per la «garanzia a protezione» offerta da Provenzano. Anche il pentito Giovanni Brusca racconta di quanto Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, odiasse i Ciancimino: «Li voleva uccidere: era convinto che Riina lo avevano fatto prendere loro». Ecco perché, forse, si è resa necessaria una protezione per il neo «collaborante». Vecchie ruggini e nuove minacce: è di qualche giorno fa un’irruzione della polizia in casa di Massimo Ciancimino, dopo l’arrivo di una lettera minatoria che deve aver preoccupato gli investigatori. Ma cosa ha detto di così sconvolgente il teste? Intanto ha parlato di corruzione e dell’indagine sul proprio processo, tirando dentro politici del calibro di Carlo Vizzini e Totò Cuffaro (procurandosi anche controdenunce per calunnia). Ma la parte più «pericolosa» dei suoi racconti riguarda la cosiddetta trattativa che Cosa nostra condusse con lo Stato (ancora i carabinieri del Ros), nel tentativo di alleggerire la posizione giudiziaria di alcuni capimafia in cambio della fine dello stragismo mafioso.
Siamo tra Capaci, via D’Amelio e gli attentati del ”93 a Roma, Firenze e Milano. Massimo Ciancimino sostiene di essere in possesso di molti documenti che potrebbero aprire nuove piste nelle indagini. Soprattutto sostiene di essere in grado di consegnare alla magistratura il famigerato «papello», cioè la richiesta di condizioni che Totò Riina sottoponeva al governo dell’epoca: ammorbidimento del carcere duro (il 41 bis), salvaguardia dei beni dei mafiosi, scarcerazione (revisione dei processi?) di boss condannati all’ergastolo ed altre richieste non meglio conosciute.
Ed è proprio questo benedetto «papello» (consegnato ai carabinieri e a un misterioso «Carlo» dei servizi) che sembra diventato l’oscuro oggetto del desiderio delle Procure di mezza Italia. Un paio di mesi fa, a proposito, Massimo Ciancimino lasciò l’Italia improvvisamente. Forse andava a prendere il «papello» (che si troverebbe in un Paese europeo) e per questo più squadre di agenti gli si misero alle calcagna. Ma il «teste» sembra molto più reattivo di quanto si possa pensare e si guardò bene dall’aprire quella cassaforte. Risultato: appena varcata la frontiera italiana Ciancimimo fu fermato e perquisito per ordine di una Procura, evidentemente in competizione con quella di Palermo. La vera caccia si è aperta sul papello, ma anche su dell’altro. E’ di ieri la notizia di un foglio, a suo tempo dimenticato negli archivi, con cui Cosa nostra cercò di ricattare Silvio Berlusconi pretendendo il controllo di una rete Fininvest. Ecco, insieme col «papello» sarebbe custodita copia di un assegno - venuto fuori durante l’inchiesta sul riciclaggio - che don Vito avrebbe firmato in favore della campagna elettorale della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Anche questo ha promesso di consegnare. Quando? Molto dipenderà dalle sue vicissitudini processuali.