Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  luglio 03 Venerdì calendario

«QUANTA FRETTA NELLO SPENDERE QUEI SOLDI TROPPE SOCIETA’, SIAMO VICINI AL CRAC»


Dall’alto di tre decenni di calcio, Beppe Marotta, 52 anni, oggi amministratore delegato e di­rettore generale della Sampdoria, non ha dubbi nel fotografare lo stato del pallone italiano: «Siamo un’anomalia europea: il sistema è sull’orlo del col­lasso ». Quando si dice parlare chiaro.

Responsabilità?
«Nostre, naturalmente. Di noi dirigenti, intendo: poco lungimiranti nel creare valore, troppo frettolo­si nello spendere i soldi – tanti, più o meno il 65% del fatturato totale dell’azienda calcio – che pro­vengono dai diritti tv. Su quel mucchio di soldi ci siamo proprio adagiati».

In che senso?
«Nel senso che non abbiamo saputo diversifica­re, puntare su asset diversi, cercare più equilibrio nei ricavi – diritti, botteghino e merchandising ”, in modo da non dipendere quasi totalmente dalle tv. Sono tanti soldi e va benissimo, ma è questa di­pendenza a essere innaturale».

Sei miliardi di euro in dieci anni sono una bella cifra. Si potevano fare molte cose: dove sono fini­ti?
«Nell’acquisto dei cartellini e negli stipendi di cal­ciatori e allenatori. Oggi il costo del lavoro incide per il 70% dei ricavi. una cifra sproporzionata e non in linea con un sano equilibrio economico che ogni impresa dovrebbe avere. L’azienda pallone og­gi è fuori mercato: non esiste un altro comparto in­dustriale così squilibrato».

E infatti le società di calcio sono indebitate. E (quasi tutte) con cifre esorbitanti.
«Normale, finché in Italia prevarrà la cultu­ra del vincere tutto e subito. Non è un caso che da noi stia vincendo la squadra che ha il rosso di bilancio più consistente».

Quindi che cosa va cambiato?
«Usando paroloni, va modificata la cultu­ra sportiva di noi dirigenti, ma anche quel­la dei tifosi, che non devono pretendere, so­lo perché pagano il biglietto, di vedere la squadra vincere lo scudetto o una coppa subito, e a ogni sta­gione ».

Ricetta per riemergere?
«Puntare a creare prima un club solido, con rica­vi equilibrati. Poi, un maggior controllo nei costi. Si può, anzi si deve partire dagli stadi di proprietà. Il 99% dei nostri appartengono degli enti locali. E so­no impianti vecchi, privi di comfort, e pure poco sicuri: gli spettatori entrano grazie alle deroghe. Non domandiamoci poi perché sono sempre meno affollati».

Lo stadio di proprietà cambierebbe la situazio­ne?
« la strada seguita in Inghilterra, Germania e Francia. L’Arsenal vendette i suoi giocatori migliori per costruire l’Emirates. Poi ha investito sui giova­ni: ed è rimasto tra i migliori club europei. Un esempio da seguire. Nel resto d’Europa sono mol­to più avanti di noi. Pure il Portogallo».

E la Spagna: è davvero il nuovo Eldorado?
«Il Real Madrid sta sbancando il mercato, ma lo fa a spalle coperte. Ha debiti ma anche valore, come le società inglesi. E i giocatori stranieri van­no volentieri in Spagna perché la tassazione è al 24%, mentre in Italia è il doppio».

Ci risiamo: chiederete aiuti lo Stato?
«Allo Stato chiederei non certo soldi o una diver­sa politica fiscale, ma una legge quadro sullo sport e il ripensamento della legge 91 sul professionismo. Tra l’altro, il sistema calcio in Italia governa 132 club contro i 42 della Spagna e della Francia, i 90 dell’Inghilterra e i 72 della Germania. Siamo troppi: la ristrutturazione dell’area professionistica, da ren­dere più snella, è uno snodo fondamentale».

Francamente: prevede una crisetta, una crisi o siamo vicini al crac?
«Francamente, la terza che ha detto».