Ida Dominijanni, il Manifesto 30/06/2009, 30 giugno 2009
Che male c’è, il nuovo inno nazionale - Il presidente della Repubblica Napolitano perdonerà se, nel mio piccolissimo, non osservo nessuna tregua e continuo a parlare del presidente del consiglio e dei vari scandali che lo riguardano, nessuno dei quali si autosospenderà da qui al G8, e se verrà tacitato in Italia non lo sarà all’estero
Che male c’è, il nuovo inno nazionale - Il presidente della Repubblica Napolitano perdonerà se, nel mio piccolissimo, non osservo nessuna tregua e continuo a parlare del presidente del consiglio e dei vari scandali che lo riguardano, nessuno dei quali si autosospenderà da qui al G8, e se verrà tacitato in Italia non lo sarà all’estero. Scandali vari, e tanto per variare non comincio con veline, mogli e escort ma con la cena fra Berlusconi, Gianni Letta, il guardasigilli Alfano, il presidente della commissione affari costituzionali del senato Vizzini e due giudici della corte costituzionale, organizzata a maggio a casa di uno di questi ultimi e di cui ha dato notizia L’Espresso pochi giorni fa. Della circostanza, una costituzionalista eccellente e saggia come Lorenza Carlassarre (un’altra donna!) ha detto che è da giudicare «di una gravità inaudita», in sé e per sé e in quanto getta un’ombra di sfiducia sul massimo organo di garanzia della nostra democrazia, a poche settimane dalla pronuncia della consulta sul lodo Alfano. Il padrone di casa invece, Luigi Mazzella, ha reagito con un candido «Che male c’è? a casa mia invito chi mi pare». Tale e quale la reazione di Berlusconi alla scoperta delle feste di palazzo Grazioli: «Che male c’è? a casa mia invito chi mi pare, e non chiederò mai a nessuno di spegnere il telefonino perché in quello che faccio non c’è nulla da nascondere». Tale e quale altre reazioni, di tutti i difensori del premier nei talk show o nei «suoi» giornali. «Che male c’è» è diventato una sorta di inno nazionale. Chi non lo intona è un moralista, il peggiore epiteto che ci si possa beccare di questi tempi. E infatti, chi non lo intona non lo contesta: al massimo tace. E dunque, acconsente. Allora, che male c’è? Pare diventato insostenibile dire che qualcosa di male c’è eccome, in questa privatizzazione totale della vita pubblica, che va dalle cene fra controllori (i giudici costituzionali) e controllati (il presidente del consiglio e i suoi legislatori) ai festini nella residenza privata del premier resa pubblica dal tricolore che ci sventola sopra, oltre che dagli innumerevoli incontri a pieno titolo politici che il suo inquilino vi convoca. Pare diventato insostenibile che qualcosa di male c’è, in un sistema di scambio sesso-potere-danaro praticato e legittimato dai vertici del sistema politico. Senza insistere su cose che abbiamo detto e ripetuto in queste settimane, parrebbero urgenti altre domande di più lungo raggio, che non riguardano Berlusconi ma la società italiana: che cosa ha reso così obsoleti e insostenibili alcuni criteri di comportamento che fino a un paio di decenni fa sarebbero stati scontati? Due cambiamenti risultano e risaltano dai cosiddetti «scandali» di queste settimane, tutti e due sedimentazioni delle rotture innescate - o interpretate - dal berlusconismo. Uno è la completa perdita d’aura della politica e dell’uomo politico: né l’una né l’altro hanno più nulla di sacrale, ma questa loro estrema secolarizzazione, che dovrebbe renderceli più prossimi, per paradosso invece aumenta la distanza dalla politica, come dice a chiare lettere l’astensionismo. L’identificazione col leader ha distrutto la rappresentanza, l’immediatezza della politica mediatica ha rotto tutti i codici della mediazione, anche quelli che dovrebbero regolare gli inviti a cena o a corte. Eccesso di immaginario, difetto di simbolico: qualcosa di male c’è. Il secondo cambiamento è la perdita di orientamento nei comportamenti - l’etica sarebbe questo, una bussola nei comportamenti - che si accompagna allo sbandieramento della cosiddetta libertà. Anche qua c’è un paradosso, perché nulla orienta di più della libertà, quando questa parola ha il senso che la tradizione politica ci tramanda. Ma il berlusconismo è passato precisamente su uno stravolgimento di senso di questa parola, che adesso significa semplicemente fare, e comprare, qualsiasi cosa, senza costi aggiuntivi in termini di giudizio o di credibilità. E dunque, che male c’è se il premier fa sesso a pagamento promettendo di sdebitarsi (senza per giunta mantenere) con le licenze edilizie e le candidature? Qualcosa di male c’è, e la libertà non c’entra niente: si chiama mercato (sessuale). Moralismo? Così dicono tutti quelli che fino a due mesi fa elargivano criteri morali a chili, sulla vita sulla malattia e sulla morte, sull’aborto e sull’embrione, nonché, ironia della sorte, sulla prostituzione. Ma a me continua a sembrare più scandaloso il silenzio di chi per non sembrare moralista non dice nulla di nulla. Lo sport preferito della cosiddetta opposizione è stato per due mesi tacere, sfogliando la margherita fra affare pubblico e fatti privati. Adesso che la slavina è diventata valanga, qualcuno comincia a parlare, ma solo per dire che se Berlusconi traballa non è per via delle veline o della moglie o delle escort, bensì per la sua risposta inadeguata alla crisi economica. Su quali specchi ci si arrampica pur di disconoscere e rendere irrilevanti parole e atti femminili. Salvo incassarne parassitariamente i risultati, senza aver mosso un’unghia e senza aver espresso un giudizio.