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 2009  luglio 01 Mercoledì calendario

COMMEDIA, CHE TITOLO E’ QUESTO?


«Dante non pensò a quel nome per il suo capolavoro»

La questione dei titoli in letteratu­ra non è sempre pacifica. Càpita che il titolo di un libro si trasfor­mi strada facendo: è il caso del romanzo di Manzoni, che prima della sua forma definitiva, I promessi sposi, era Fer­mo e Lucia e, nella sua fase intermedia,

Gli sposi promessi. Sono tutte soluzioni testimoniate dagli autografi. Le cose si complicano, ovviamente, se gli autografi non ci sono e per ricostruire un’opera dobbiamo fondarci soltanto su copie suc­cessive, non d’autore. Come si sa, non sia­mo in possesso di nessuna carta scritta personalmente da Dante Alighieri, dun­que la ricostruzione dei suoi testi origina­li è avvenuta grazie a un accurato lavoro filologico tra le numerose copie – più o meno affidabili – manoscritte e a stam­pa che li tramandano. Quanto al titolo, sappiamo per certo, però, che l’aggettivo «divina» si deve a Boccaccio, il quale lo associò arbitrariamente a «Commedia» nella sua biografia dantesca. Divina com­media, in cui l’attributo segnala il tema del viaggio oltremondano, compare co­me titolo per la prima volta nell’edizione del poema curata nel 1555 dal veneziano Ludovico Dolce.

Ma perché Commedia? Quel titolo è davvero il titolo voluto da Dante? Per la ve­rità non tutti gli studiosi, i critici, i com­mentatori, i filologi ne sono certi. Anzi. Ora, un saggio di Alberto Casadei, docen­te di Letteratura italiana all’Università di Pisa, che uscirà nel numero di luglio della rivista «Allegoria», torna a sollevare più di un dubbio sulla questione. In realtà, Dante definisce «comedìa» la sua opera in due occasioni all’interno del poema stesso, sempre con accento greco e nella sua forma scempia (una sola «m»), secon­do l’uso medievale: in Inferno XVI 128 («questa comedìa») e in Inferno XXI 2 («la mia comedìa»).

A togliere da ogni imbarazzo i sosteni­tori di quel titolo ci sarebbe una prova affi­data alla discussa Epistola XIII, indirizzata a Cangrande della Scala, il protettore di Dante cui è dedicato il Paradiso. Perché discussa? Perché non tutti gli studiosi con­cordano nell’attribuzione dantesca (i più la considerano di Dante solo in parte). L’autore a un certo punto scrive in latino: «Il titolo del libro è ’Incomincia la Com­media di Dante Alighieri, fiorentino di na­scita, non di costumi’». Dunque, è per questo che l’italiano Commedia è diventa­to il titolo universalmente accettato: accol­to, del resto, anche nell’edizione critica di Giorgio Petrocchi.

Perché Dante l’avrebbe scelto? Nell’Epi­stola a Cangrande troviamo una spiegazio­ne: la commedia – vi si legge – «è un genere di narrazione poetica che differi­sce da tutti gli altri. Quanto all’argomento differisce dunque dalla tragedia in ciò, che la tragedia all’inizio è assai gradevole e quieta e alla fine o nell’esito fetida e orri­bile (…). Invece la commedia presenta al­l’inizio una situazione perturbata, ma la sua vicenda si conclude felicemente». Che si concluda «felicemente», il poema dantesco, non c’è dubbio. Ma nell’Episto­la si aggiunge un distinguo stilistico: men­tre la tragedia «si esprime con linguaggio altisonante e sublime», la commedia ha «un linguaggio dimesso e umile, come vuole Orazio nella sua Arte Poetica, dove autorizza i comici a esprimersi talvolta co­me i tragici, e viceversa». Sono argomen­tazioni molto semplificate, che giusta­mente non convincono tutti. E ancora me­no convince la conclusione, e cioè il fatto che il linguaggio «dimesso e umile» vada identificato con il volgare, «nel quale co­municano anche le donnette».

Quindici anni prima, nel De vulgari elo­quentia,

Dante sembrava pensarla in mo­do ben più sfumato, visto che andava alla ricerca di un volgare illustre adatto alla li­rica. Come fa notare Casadei, il presunto titolo darebbe conto non tanto dell’aspet­to tematico (il viaggio verso l’aldilà con meta finale paradisiaca) quanto dell’aspet­to formale, sarebbe cioè indicativo del ge­nere e dello stile (meglio, degli stili) del­l’opera più che del suo contenuto. In un recente volume, che dedica un capitolo al­la titolazione della Commedia, anche il dantista Saverio Bellomo parla di un tito­lo «anomalo»: «sarebbe – scrive – co­me intitolare ’Romanzo’ I promessi spo­si ». Casadei non si ferma qui. Ricorda che nell’Inferno Dante mette in bocca a Virgi­lio un accenno a «l’alta mia tragedìa» (che però non si intitola Tragedìa, ma, co­me si sa e come lo stesso Dante ben sape­va, Eneide). La citazione virgiliana prece­de di poco il sintagma «la mia comedìa» riferito da Dante al proprio poema. Secon­do Casadei, la vicinanza dei due passi e la specularità delle formule con il possessi­vo («la mia tragedìa», «la mia comedìa») denotano la volontà di sottolineare, con un rimbalzo reciproco, la cifra stilistica delle due opere, mettendole a confronto, e non certo l’intenzione di identificarle con un titolo. A ciò va aggiunto il fatto che Dante nel Paradiso definisce la pro­pria opera non più una «comedìa» ma un «poema sacro» o «sacrato poema», dive­nuto tale «perché alla sua realizzazione hanno collaborato il Cielo e la terra, Dio ispiratore e Dante, suo scriba terreno». Un’opera ormai vicina alla «teodìa» co­me, sempre nel Paradiso, vengono chia­mati i salmi di David. «Comedìa» sarebbe dunque solo una parte dell’opera: opera che con il contributo celeste ambiva a far­si appunto «poema sacro».

« più che verosimile – conclude Casadei – che Dante definisse le sue tre cantiche semplicemente Inferno, Purgatorio e Paradiso, le sole indicazio­ni che si trovano negli incipit di molti manoscritti fra quelli cui è attribuibile una datazione alta». Furono i primi in­terpreti o copisti a ricavare (erronea­mente?) dai passi infernali il presunto titolo, senza afferrarne il valore specifi­co. Il che, tra l’altro, contribuirebbe a dubitare ancora di più dell’attribuzione dantesca della famigerata Epistola a Cangrande. Il titolo Commedia, insom­ma, avrebbe finito per tranquillizzare gli esegeti più banali (che si accontenta­vano di inserire il capolavoro dantesco entro gli schemi delle poetiche medie­vali). Dando appoggio, tra l’altro, alle te­si di quei critici (caposcuola Contini) che intendevano inserire il poema nel filone espressionista (definizione che dava rilievo essenzialmente all’aspetto stilistico). Ma questo è un discorso an­cora più complesso.

Comunque, se diamo credito ai dubbi di Casadei, rimane aperta la questione centrale: qual è il vero titolo della Comme­dia?

 possibile che, come per i poemi an­tichi ( Odissea, Iliade, Eneide) a cui Dante si ispirò, Commedia fosse solo il titolo as­segnato a posteriori dagli editori. E sem­mai, come nel caso della Tebaide di Sta­zio, per rintracciare il vero titolo bisogne­rebbe ricorrere a un explicit (la chiusa del poema) di cui finora non c’è traccia.