Alessandra Casarico, Paola Profeta, ཿIl Sole-24 Ore 1/7/2009;, 1 luglio 2009
DONNE E UOMINI UNITI DALLA PENSIONE
opportuno aumentare l’età pensionabile delle donne a 65 anni? La domanda è tornata alla ribalta dopo qualche mese di silenzio con l’apertura della procedura di infrazione da parte di Bruxelles, che fa seguito alla sentenza della Corte di giustizia europea con la quale si richiedeva al nostro paese di equiparare l’età di pensionamento di uomini e donne nella pubblica amministrazione. I lavori in corso non sono arrivati a una proposta definitiva, facendo così scattare la procedura di infrazione.
Il dibattito che si è animato in questi mesi parte dalla considerazione che l’attuale sistema italiano, che prevede il pensionamento per gli uomini a 65 anni e per le donne a 60, favorisca le donne, consentendo loro un’uscita anticipata dal mercato del lavoro, nonostante la speranza di vita mediamente superiore. Questo trattamento favorevole si giustificherebbe come compensazione ex post per gli svantaggi subiti dalle donne nel corso dell’attività lavorativa. noto infatti che il percorso lavorativo femminile incontra molti ostacoli, dall’accesso, alla progressione di carriera e alla remunerazione.
La prospettiva europea in realtà è diversa: l’uscita anticipata dal mercato del lavoro rappresenta un’ulteriore discriminazione per le donne, che si vedono limitare in questo modo le loro possibilità di cumulare reddito per la vecchiaia. Se consideriamo che le retribuzioni medie femminili sono inferiori a quelle maschili lungo tutta la vita lavorativa, l’anticipo nell’età di pensionamento aggraverebbe il rischio di povertà delle pensionate italiane.
Uno sguardo ai grafici sopra riportati può aiutare a capire la prospettiva europea: nel primo si vede come il differenziale di genere nei tassi di sostituzione (rapporto dei redditi da pensione di persone di età compresa tra 65 e 74 anni rispetto alle remunerazioni da lavoro di persone di età compresa tra i 50 e 59 anni) dei pensionati uomini e donne è in Italia il più alto tra i paesi della Ue a 25. Alcuni paesi hanno un differenziale negativo- i tassi di sostituzione garantiti alle pensionate sono più elevati di quelli dei pensionati. Il differenziale positivo - e così elevato - dell’Italia suggerisce che le donne ricevono pensioni mediamente più basse degli uomini, come si evince anche dal secondo grafico, che riporta le differenze di genere dei redditi medi e mediani degli ultra 65enni per i paesi della Ue a 25. L’allungamento del periodo lavorativo potrebbe quindi consentire alle donne di rafforzare la loro posizione reddituale in età di pensionamento.
Questa considerazione in realtà è più generale. L’allungamento della vita lavorativa può avere un effetto benefico non solo per le donne, ma anche per gli uomini, poiché aumenta il reddito disponibile durante il pensionamento e può almeno in parte compensare la riduzione dei tassi di sostituzione associata alle riforme pensionistiche italiane degli anni Novanta. Le riforme a favore dell’active aging trovano in questa argomentazione la loro motivazione principale e la strada per conquistare il supporto dei cittadini.
Per le donne il miglioramento della posizione reddituale durante gli anni in pensione legato a uno spostamento in avanti dell’età pensionabile potrebbe essere più necessario, data la loro maggiore longevità e le carriere lavorative spesso più interrotte. Si tenga anche presente che il sistema pensionistico italiano prevede uno stretto legame tra contributi versati e prestazioni ricevute, in particolare quando andrà a regime il metodo contributivo. Questo legame minimizza il grado di redistribuzione del sistema pensionistico, accentuando la finalità assicurativa, con evidenti svantaggi sui soggetti, come le donne, più deboli dal punto di vista reddituale. In altri termini, il disegno del sistema pensionistico non consente, attraverso la redistribuzione, un recupero della posizione reddituale durante il pensionamento.
Come promuovere l’allungamento della vita lavorativa di uomini e donne? E come allo stesso tempo rispondere alla condanna di Bruxelles?
Una possibile via è il ritorno al principio di flessibilità, già introdotto dalla riforma Dini del 1995 e poi abbandonato dalla successiva riforma Maroni. Questo principio prevede una finestra di età di pensionamento comune per uomini e donne all’interno della quale è possibile andare in pensione. La finestra di età comune risolve il problema delle differenze di genere nell’età di pensionamento sollevato dalla procedura comunitaria. Il meccanismo contributivo di determinazione della prestazione pensionistica prevede anche incentivi per il posticipo del pensionamento all’interno della finestra di età, nella direzione di promuovere l’invecchiamento attivo. Sempre con questo obiettivo, l’intervallo di età pensionabile dovrebbe essere spostato in avanti rispetto a quello previsto dalla riforma Dini (57-65 anni).
Non dimentichiamo inoltre che la flessibilità consente di tenere conto delle situazioni individuali relative per esempio allo stato di salute, la disutilità del lavoro, le scelte congiunte della coppia di ritirarsi dal mercato del lavoro, che difficilmente possono essere colte in un sistema che preveda un’unica età di pensionamento.
L’allungamento della vita lavorativa non dipende solo dalle scelte dei lavoratori. Le imprese sono disponibili ad assorbire il lavoro degli ultra 60enni? Non ci sono evidenze empiriche conclusive su questo aspetto, che però rappresenta una parte fondamentale del successo delle proposte di posticipo dell’età di pensionamento. Sappiamo che in Italia il tasso di partecipazione al mercato del lavoro nella fascia d’età 55-64 è il più basso in Europa, solo di poco sopra al 30%, contro una media europea oltre il 40% e un obiettivo fissato dalla Agenda di Lisbona per il 2010 del 50 per cento.
Parte di questa inattività può dipendere dalle scelte individuali di pensionamento anticipato legate alle regole del sistema pensionistico (tassazione implicita sul proseguimento dell’attività lavorativa). Il meccanismo contributivo e la flessibilità correggono queste distorsioni. Ma una parte della mancata attività degli ultra 55enni dipende anche dalla carenza di domanda delle imprese. In questa direzione interventi sul mercato del lavoro a favore dell’occupazione degli anziani sono desiderabili. In particolare, poiché gran parte della mancata attività degli ultra 55enni è riferibile alle donne, politiche che le sostengano nel lavoro di cura, in cui sono coinvolte in misura maggiore rispetto agli uomini, anche in età avanzata, potrebbero essere un ingrediente essenziale per rendere effettivo qualunque tentativo di posticipo del pensionamento.