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 2009  luglio 01 Mercoledì calendario

RIENTRO DIFFICILE PER «BIG OIL»

Festa della sovranità nazionale nelle strade e festa del petrolio all’Hotel Rashid: il governo di al-Maliki aveva organizzato le cose in grande per far coincidere il ritirodalle città delle truppe americane e la prima asta dei contratti destinati alle grandi compagnie del Big Oil. Una coincidenza tra nazione e petrolio che per la verità all’Iraq non ha mai portato troppa fortuna. L’Iraq contemporaneo è una creatura dal colonialismo europeo sulla spinta determinante del petrolio e per iniziativa dell’armeno Calouste Gulbenkian, l’uomo che aveva intuito il potenziale energetico della Mesopotamia e riscoperto Kirkuk, la prima pompa di benzina del Medio Oriente. "Il signor 5 per cento”questa era la sua quota di petrolio iracheno - fu il padre fondatore del consorzio tra AngloPersian, la "nonna" della Bp, Shell, Cfp, antenata della francese Total, e la Standard Oil americana: alcuni di questi nomi sono in gara ancora oggi in Iraq, affiancati dalle compagnie cinesi e asiatiche.
Nella schiera del Big Oil soltanto la Bp, con la Cnpc cinese, si è aggiudicata un grande contratto per i pozzi di Rumaila: ma avendo accettato di essere pagata dal governo iracheno 2 dollari al barile dovrà estrarre, se mai ci arriverà, almeno 2,8 milioni di barili al giorno- più di quanti oggi ne produca l’intero Iraq per guadagnare 120 milioni di dollari l’anno, lo 0,6% dei suoi profitti globali. E se le cifre sono queste, scrive il Financial Times, si capisce perché l’asta sia stata un mezzo fallimento.
Eppure l’Iraq, alla vigilia della guerra nel 2003, veniva presentato come una grande occasione per l’industria petrolifera mondiale. La fine di Saddam Hussein avrebbe spianato la strada alle compagnie occidentali che in questo paese non si aggiudicavano un contratto da trent’anni. L’Iraq del Raìs, sotto embargo e con impianti senescenti, produceva poco più di 2 milioni di barili al giorno: oggi si superano a stento i 2,4. Una quota trascurabile per un paese che ha riserve ufficiali per 112 miliardi di barili ma ne custodisce, secondo alcune stime, oltre 215, una sorta di "scandalo geologico", ben visibile attraversando le pianure verso Bassora dove una sottile striscia nera, perenne, affiora tra i campi. Nell’oro nero e nel bitume intingono gli zoccoli gli animali al pascolo.
In realtà in Iraq il barile è dimezzato, cioè lo sfruttamento delle risorse divide il paese al punto tale che non esiste ancora, a sei anni dalla caduta di Saddam, una legge petrolifera accettata da tutti. I curdi vanno per conto proprio e hanno già assegnato le concessioni che potevano alle società occidentali. I sunniti, quelli meno fortunati, fanno ostruzionismo e anche gli sciiti non sono per niente d’accordo: tanto è vero che la compagnia nazionale del Sud è entrata in rotta di collisione con il ministero del Petrolio, minacciando di sabotare una seconda asta. Lo stesso governo non sa mai bene cosa fare e così, per non essere troppo criticato, ha posto condizioni capestro per le compagnie. Se è vero che in Iraq estrarre il petrolio costa meno che in molte altre parti del mondo, non si può ignorare che gli investimenti per rinnovare gli impianti sono alti, come pure quelli per la sicurezza. Non è casuale che nei consorzi siano presenti i cinesi: paghe basse e costi ridotti all’osso.
Il sentore di petrolio in Iraq ha già risvegliato una nuova ondata terroristica. A Kirkuk, la città petrolifera contesa tra curdi, arabi e turcomanni, ieri è saltata in aria un’autobomba con almeno 30 morti, dieci giorni fa un’esplosione aveva fatto 70 vittime. La storia di Kirkuk è la storia della spartizione del petrolio arabo, della nascita dell’Iraq, del senso profondo di guerre e rivolte che da un secolo agitano il cuore del Medio Oriente: una vicenda che sembra non concludersi mai.