Martin Wolf, ཿIl Sole-24 Ore 1/7/2009;, 1 luglio 2009
ISTITUZIONI TROPPO GRANDI PER FALLIRE? NO, SOLO TROPPI AIUTI
Ancora un piccolo passo avanti e le banche saranno libere. Così, almeno, sembra. Il panico che dilagava nell’autunno 2008 sta già evaporando. Il periodo nel quale era necessario apprendere qualche bella lezioncina e varare cambiamenti volge ormai al termine. Senza cambiamenti radicali, però, un’altra crisi è certa. Anzi: forse non è poi nemmeno troppo lontana. In un suo recente discorso, Elizabeth Duke ( uno dei governatori della Federal Reserve) ha raccontato un aneddoto risalente al periodo immediatamente successivo al fallimento della Lehman Brothers, nel settembre scorso. A Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, era stato chiesto: «Beh, che accadrebbe se non facessimo nulla?». Lui aveva risposto: «Lunedì l’economia non esisterebbe più ». Invece, tutte le istituzioni ritenute più importanti da un punto di vista sistemico sono state salvate, e i contribuenti si sono visti rifilare la maggior parte del rischio.
«Mai più» potrebbe essere qualcosa di eccessivo da chiedere. Ma «non più, per una generazione almeno » è di importanza cruciale pretenderlo. I governi non possono permettersi di affrontare un bis a breve termine. Né dal punto di vista finanziario, né da quello politico e forse neppure da quello morale: le vite di così tante persone non possono essere sacrificate così presto per gli sfizi di qualche sciocco.
Nondimeno, sta emergendo dalla crisi – come ho sostenuto la settimana scorsa – un sistema finanziario ancora peggiore di quello che conoscevamo. I sopravvissuti costituiscono un oligopolio di colossi finanziari "troppo-grossi-e- interconnessi- per-fallire". Sono vincenti non perché necessariamente sono le aziende migliori, ma perché sono quelle più aiutate. Non ci vuole poi tanta immaginazione per capire che cosa queste istituzioni potranno fare adesso, considerati gli incentivi per accollarsi i rischi che hanno intascato. Ma, allora, che fare? La tipica quanto inutile riposta è spostare le comode sdraio degli enti regolatori sul ponte principale del Titanic. Le proposte avanzate di recente dal Tesoro americano ricadono appieno in questa categoria. Ma il sistema finanziario deve essere salvato dalla cattiva gestione del rischio di cui esso stesso è responsabile. E questo non lo si cambierà con una supervisione e un controllo esterni. Le cose devono e potranno cambiare soltanto mettendo a punto degli incentivi.
Da dove partire? Proprio dalla definizione di «troppo-grande-per-fallire»: ci serve infatti un sistema credibile per liquidare perfino le istituzioni finanziarie enormi. Le proposte più interessanti sono quelle di «banche buone», nelle quali i creditori privi di copertura diventino azionisti. Ciò sarebbe più facile se - come il presidente Barack Obama ha proposto e come Mervyn King, governatore della Banca di Inghilterra, ha sostenuto - ogni ente controllato dovesse presentare un piano per contenere le proprie attività.
I fallimenti bancari, però, sono come gli autobus: non ne avvisti uno per ore, poi arrivano tutti insieme. Le autorità non possono promettere in modo attendibile di essere pronte, in caso di crisi sistemica, a mettere tutte le istituzioni colpite in bancarotta controllata. Questa sarebbe un’ottima ricetta per far dilagare ancor più il panico. «Troppo-grosse-e-interconnesse- per-fallire» è una realtà. Si tratta di un dato di fatto perché, come Andrew Haldane della Banca di Inghilterra ha sottolineato in un suo recente discorso, il sistema finanziario è un network sempre più fittamente connesso.
Il mio collega John Kay ha sostenuto che la soluzione migliore per questa situazione sarebbe la creazione di «piccole banche» perfettamente sicure; e lasciare che il resto del sistema finanziario vada pure per la sua strada, soggetto quindi a un più che plausibile rischio di bancarotta. Trovo questa idea allettante e al tempo stesso poco convincente. Perché «allettante» è ovvio. Poco convincente in parte perché è davvero difficile concordare su ciò che dovrebbe fare una piccola banca, e poco convincente anche perché tanto più piccole sono le banche, tanto più vitale ed essenziale è il ruolo del resto del sistema finanziario e tanto meno plausibile la possibilità che il governo possa lasciare che vada al collasso.
Se le istituzioni bancarie sono troppo grandi e troppo interconnesse per fallire, se nessuna soluzione strutturale è ravvisabile, occorre trovare delle alternative: requisiti di capitale più alti e una maggiore attenzione alla liquidità sono i primi che mi vengono in mente, e i più ovvi. Attualmente, le grandi istituzioni finanziarie operano con un capitale pressoché inesistente. Negli Stati Uniti mediamente il rapporto di leverage delle banche commerciali nel 2007 era di 35 a 1; in Europa era del 45 a 1. Come ho già osservato la settimana scorsa, ciò rende logico che gli azionisti falliscano, con i risultati che abbiamo tutti sotto gli occhi. Consentire alle istituzioni di essere gestite nell’interesse degli azionisti, che forniscono soltanto il 3% dei loro fondi disponibili per i prestiti, è da pazzi. Cercare di far coincidere gli interessi del management con quelli degli azionisti è ancor più da pazzi. Con l’attuale struttura di capitale, le grandi istituzioni finanziarie sono quasi una licenza a giocare d’azzardo il denaro dei contribuenti.
A questo punto non resta che chiedersi: quanto capitale sarebbe logico che le istituzioni sistemicamente significative possedessero? «Molto, molto più di quello odierno » è la risposta. Oltre tutto, il capitale necessario dovrebbe anche non essere valutato in relazione al rischio sulla base di modelli bancari poco o affatto affidabili. I soldi degli azionisti dovrebbero costituire almeno il dieci per cento del capitale. Negli Stati Uniti tale percentuale un tempo era molto più alta.
Dobbiamo tener conto, oltretutto, che un capitale più rilevante è un ottimo strumento per assorbire i fattori esterni negativi - nello specifico, i rischi - creati da un solo ente per l’intero sistema. Teoricamente, quindi, il capitale necessario dovrebbe essere correlato all’importanza sistemica delle istituzioni, come sostiene l’eccellente rapporto annuale redatto dalla Bank for International Settlements. Per di più, questo requisito dovrebbe essere fissato nei confronti di tutte le attività, sulla base di rapporti interamente consolidati.
Nell’ambito di un sistema finanziario molto meglio capitalizzato, sarebbe altresì relativamente facile amministrare un regime «macroprudenziale», in virtù del quale il capitale necessario debba aumentare durante i periodi di boom e debba diminuire durante le crisi. Ancora una volta: quanto più grande la partecipazione azionaria degli azionisti, tanto minori sarebbero le preoccupazioni se gli utili dei manager fossero ancorati a essi. Anche così, gli enti regolatori devono avere una sorta di controllo sugli incentivi destinati ai manager, almeno finché sono i contribuenti ad accollarsene i rischi residui.
Non resterebbe a questo punto che superare due difficoltà: la transizione e l’arbitraggio normativo. Per quanto riguarda il primo, la richiesta di un più alto rapporto di capitale in questo momento metterebbe a repentaglio la ripresa. La soluzione giusta, pertanto, è una transizione lunga, forse perfino un decennio. Per quanto riguarda il secondo, invece, è evidente che il cosiddetto «sistema bancario sommerso » non può essere autorizzato a operare al di fuori di vincoli di capitale se le entità coinvolte hanno probabilità di essere sistemicamente significative, come si è dimostrato nel caso dei fondi del mercato monetario. Oltretutto, il rapporto di capitale dovrebbe essere imposto a tutti i Paesi che hanno un loro peso economico. Gli Stati Uniti, tuttavia, sono abbastanza forti da poter costringere a uno spostamento in questa direzione, insistendo che ogni banca straniera che opera nel suo territorio abbia capitali adeguati. Concludendo, il punto di partenza giusto per ottenere un sistema finanziario più sano è sicuramente il deleveraging, che funzionerebbe ancora meglio se riuscissimo al tempo stesso a eliminare gli odierni ingenti incentivi fiscali per il prestito. L’opzione più rischiosa al momento è un cauto incrementalismo, non il radicalismo. Da dove si dovrebbe iniziare? La risposta è semplice: dagli incentivi, sciocchi!