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 2009  luglio 01 Mercoledì calendario

GOODBYE BAGDAD


Nuri Kamal al-Maliki, il primo ministro, ha celebrato il ritiro dei soldati americani dalle zone urbane come una liberazione. Come se le forze nazionali avessero espulso le forze d´occupazione. Alla parata militare, svoltasi al sicuro, in quel campo trincerato che è la "zona verde", dove vivono ambasciatori e ministri, non c´è stata una cerimonia per il passaggio simbolico delle consegne tra i militari americani che si ritiravano e i militari iracheni che prendevano il loro posto nelle strade e piazze della metropoli.
 stata una festa irachena. Alissa J. Rubin, reporter del New York Times sul posto, lo sottolinea. E cita le significative parole di al-Maliki: « Il governo di unità nazionale è riuscito a fermare la guerra tra gruppi etnici che minacciava l´unità e la sovranità dell´Iraq». Neanche una parola per gli americani, coinvolti per sei anni nei combattimenti, e ancora presenti (con più di 120mila soldati) nel Paese. Neppure un aggettivo per rammentare che il suo governo è il risultato delle elezioni imposte dagli americani. Elezioni svoltesi sotto la loro sorveglianza armata. Neanche un cenno per ricordare come i 500mila poliziotti e i 250mila soldati iracheni, oggi dispiegati nelle valli del Tigri e dell´Eufrate, siano stati e siano tuttora addestrati da istruttori americani.
Mentre le autorità irachene festeggiavano il ritiro parziale delle truppe straniere, come se fosse il "giorno dell´indipendenza" da vivere in famiglia, nell´ambito nazionale, e forse per questo non autorizzando il New York Times e due tv americane ad assistere alla cerimonia; le autorità militari americane annunciavano la morte di quattro loro soldati nel corso di un´operazione, avvenuta lunedì a Bagdad.

Dopo sei anni, comincia il ritiro delle truppe americane. E il popolo festeggia la "liberazione" tra orgoglio e ingratitudine. Dimenticando che con l´aiuto degli Stati Uniti è caduto Saddam e il Paese ha potuto eleggere il suo governo
Il premier al-Maliki non ha fatto alcun cenno ai marines e al loro tributo di sangue
Tutti sanno che ora l´insurrezione armata cercherà di approfittare della situazione
Il maggio 2009 è stato il mese meno insanguinato dall´inizio dell´occupazione

I primi celebravano una svolta decisiva per la storia patria; i secondi ricordavano che i soldati invasori continuano a morire sul campo.
Orgoglio nazionale o ingratitudine? L´orgoglio senz´altro prevale tra gli iracheni, e spinge a festeggiare la fine dell´occupazione, per ora nelle città. Nell´immenso parco Zahra, a Bagdad, dove il popolarissimo Salah Hassan cantava «L´Iraq è fedele al suo popolo» davanti a decine di migliaia di uomini e donne in delirio, dominava ieri una scritta semplice e chiara: «Dopo tempi difficili, a Bagdad ritroviamo sovranità e indipendenza». Insomma, siamo fieri che infine lo straniero si allontani. Per quanto riguarda tuttavia il governo, a stragrande maggioranza sciita, è impossibile non rilevare anche una dose di ingratitudine.
Persino chi non ha mai approvato l´invasione americana, deve riconoscere che è grazie ad essa se la maggioranza sciita, da sempre sottoposta all´imperio della minoranza sunnita, ha conquistato i suoi diritti. Diritti di cui spesso oggi abusa. Della mancata riconoscenza ufficiale, in un´occasione tanto significativa, possono adombrarsi gli americani. E´ l´inevitabile amarezza degli invasori che si considerano o si consideravano dei liberatori. E´ un aspetto della tragedia irachena.
Al-Maliki interpreta i sentimenti di molti. E in quel che accade in queste ore sono riassunti quei sentimenti tumultuosi e contrastanti. Definito "felice avvenimento" dal governo, il ritiro dei militari americani dalle città viene celebrato con fuochi d´artificio, pubblici concerti, discorsi ufficiali, parate militari, sventolii di bandiere nazionali, ed anche con una palpabile apprensione. Quest´ultima giustificata dal timore che i terroristi approfittino della partenza yankee, in particolare da Bagdad.
Da un lato la festa per la liberazione, al momento parziale ma altamente simbolica, dall´altro la paura di non farcela a contenere l´urto dell´insurrezione armata, e di sprofondare in una guerra civile. E´ un po´ quel che capita all´acrobata spinto dall´orgoglio a compiere gli esercizi al trapezio senza la rete. La quale era al tempo stesso umiliante e rassicurante per un atleta.
Gli ultimi attentati terroristici potevano far dubitare della capacità delle forze armate e di polizia irachene a cavarsela da sole. Il 20 giugno, a Taza, a sud di Kirkuk, una città contesa, è esploso un camion uccidendo almeno settanta persone. Due giorni dopo sette bombe hanno fatto una trentina di vittime a Bagdad e nei dintorni. Auto guidate da kamikaze o ordigni collocati lungo le strade. Il 24 giugno c´è stato, sempre a Bagdad, il più importante massacro dell´anno: oltre settanta persone uccise. All´inizio del mese era stato assassinato da un ragazzo, mentre usciva dalla moschea, dopo la preghiere del venerdi, il capo del più consistente gruppo parlamentare sunnita: Harith al-Obeidi, personaggio noto anche per la sua azione in favore dei diritti dell´uomo. Neppure Mossul, principale città del Nord, (dove l´allenatore della squadra nazionale di karaté ha fatto una fine identica a quella del parlamentare sunnita) è stata risparmiata da una serie di attentati sanguinosi.
Nonostante queste stragi, le statistiche mostrano un netto calo del numero di vittime civili. Il maggio 2009 è stato il mese meno insanguinato dal 2003, anno dell´invasione. Né è sorprendente che gli attentati si siano intensificati con l´avvicinarsi della scadenza del 30 giugno, vale a dire del ritiro degli americani dalle zone urbane. Ritiro codificato nel Sofa (Status of Forces Agreement), accordo approvato nel novembre e dicembre 2008 dal governo iracheno, dal Parlamento e dal Consiglio presidenziale, e che dovrà essere ratificato da un referendum nazionale il 30 luglio, o più probabilmente nel gennaio 2010, quando si terranno le elezioni politiche. Il ritiro dalle città è il primo passo concreto di un processo destinato a concludersi, come prevede l´accordo, non più tardi del 31 dicembre 2011, quando "tutte le United States Forces" dovranno avere abbandonato "tutto il territorio iracheno". Con un preavviso di un anno, entrambe le parti potranno abbreviare i tempi. Ma soltanto un nuovo accordo potrà allungare la presenza americana.
Nonostante il decretato ritiro dalle città, la situazione rimarrà sostanzialmente, nell´immediato futuro, quella che era prima del 30 giugno. Le unità americane non si sono allontanate troppo dalle zone urbane. Si trovano a un paio di miglia, o anche meno, dalle periferie. Sono in grado di intervenire, in caso di bisogno, con grande rapidità. E i loro istruttori e consiglieri continueranno ad essere presenti nei battaglioni, nelle brigate o nei comandi di divisione iracheni. Si calcola che istruttori e consiglieri siano 10 mila, suscettibili di salire a 35 mila, o anche a 50 mila. Continuerà l´assistenza sul piano logistico e medico, per i trasporti e per i servizi di sorveglianza, e naturalmente per l´intelligence.
Tutto questo nelle aree urbane. Gli americani adotteranno comunque un profilo più basso, saranno più discreti, cercheranno di non urtare la suscettibilità degli iracheni, che considerano il 30 giugno come il "giorno dell´indipendenza". Questo è l´aspetto positivo. Lo Stato iracheno comincia a muovere i primi passi da solo.
L´aspetto negativo è che l´insurrezione armata cercherà di approfittare della situazione: non solo dell´incertezza delle forze governative ma anche del cattivo uso che quest´ultime potrebbero fare della conquistata autonomia. Gli sciiti occupano quasi tutti i posti di comando e tendono a far pesare la loro supremazia sui sunniti. La guerra etnica, di fatto una guerra civile, non si è spenta del tutto, ma resta latente. E conosce improvvise fiammate.
Molti sunniti, delusi dalla alleanza con gli estremisti islamici (jihadisti), hanno via via abbandonato l´insurrezione armata e sono entrati nelle milizie «sahwa» (risveglio), organizzate e pagate dagli americani. Il recupero dei più di centomila sahwa è stata l´operazione più riuscita: è quella che ha abbassato i diagrammi della violenza. Ma adesso i sahwa, convertiti dagli americani, sono passati sotto l´autorità del governo a netta prevalenza sciita, e stentano a sopportare la diffidenza degli sciiti nei loro confronti. Gli americani facevano da mediatori. Cercavano di attenuare il dissidio, spesso più etnico che religioso, tra le due comunità.
Nei posti di blocco, che impongono controlli ad ogni passo nelle città, soldati e poliziotti sciiti infieriscono o si dimostrano più rigorosi nei confronti dei sunniti. I più zelanti sono gli sciiti che un tempo appartenevano ai movimenti antiamericani (l´esercito del Mahadi o le brigate Badr) e che sono state assorbite nelle forze governative.
Ed è su questo terreno che interviene la vittoria elettorale di Mahmud Ahmadinejad, vale a dire dell´estrema destra a Teheran.
Il regime iraniano può esercitare una forte influenza sull´Iraq. Può pesare sulla rivalità tra sciiti e sunniti a Bagdad. Può agire sugli sciiti estremisti come ha fatto nel passato. La tentazione iraniana di colmare, in qualche modo, il vuoto lasciato dagli americani è inevitabile. E´ la grande incognita nell´Iraq postamericano, che comincia lentamente a profilarsi.