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 2009  luglio 01 Mercoledì calendario

«Altro che caso Montesi, le fanciulle di Berlusconi sono vicenda più grave»- Sono passati più di cinquantacinque anni, ma Pietro Ingrao lo ricorda ancora bene l’editoriale in cui la questione morale irruppe ufficialmente sulla scena politica italiana

«Altro che caso Montesi, le fanciulle di Berlusconi sono vicenda più grave»- Sono passati più di cinquantacinque anni, ma Pietro Ingrao lo ricorda ancora bene l’editoriale in cui la questione morale irruppe ufficialmente sulla scena politica italiana. Perché quell’editoriale lo scrisse lui, il 7 febbraio 1954, sull’Unità di cui era direttore, trasformando le indiscrezioni sul giallo della morte di Wilma Montesi, una fanciulla trovata morta l’anno precedente sulla spiaggia romana di Tor Vajanica, e probabilmente morta durante un festino partecipato da nomi in vista della società d’allora, in un atto d’accusa dell’organo ufficiale del Partito comunista italiano contro il Palazzo e la Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa. Scrisse Ingrao: «Collegate all’affare Montesi, in una successione drammatica, sono venute le rivelazioni, o almeno le denunce, circa un torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga, di corruzione, che sconfinava nel mondo politico ufficiale. E il caso giudiziario si è mutato in una seria "questione morale". vano che il partito dominante protesti». Non c’è che dire: la questione morale, da allora, ha avuto una certa fortuna nel dibattito politico. Ed è inutile girarci intorno: se nel testo del 1954 si sostituisse «affare Montesi» con «sexgate», quello che ha investito Silvio Berlusconi, non ci si stupirebbe a ritrovare l’editoriale, parola per parola, in una rassegna stampa della settimana scorsa. Allora come oggi, pare saltato ogni confine tra pubblico e privato del Potere, tra gossip e propaganda, tra prurigine di massa e diritto all’informazione. Ingrao ha vissuto in prima fila il caso Montesi e da lettore il caso Berlusconi: «E io - dice al Riformista - trovo molto più grave quello che è successo in questi giorni. Una vicenda sessuale brutta e sgradevole, che coinvolge direttamente un leader politico, cosa che non successe all’epoca, e lo coinvolge al massimo livello, dentro casa sua, e non per un fatto di cronaca iniziato su una spiaggia qualunque». Cosa ricorda del caso Montesi? Fu una campagna che impegnò molto il giornale, e me personalmente. Secondo alcune ricostruzioni fu addirittura Palmiro Togliatti a chiederle di informarsi bene sul caso, perché forse era coinvolto il figlio di un importante politico democristiano, il vicepresidente del Consiglio Attilio Piccioni, e il Pci ne poteva trarre vantaggio politico... Non ricordo la telefonata di Togliatti. Ricordo, questo sì, che parlai con lui del caso, perché la vicenda di questa povera fanciulla, di cui erano usciti solo alcuni frammenti sulla stampa, richiamò subito la nostra attenzione politica quando ci rendemmo conto che ne era invischiato Piero Piccioni, il figlio del potente democristiano. Ma fu più una campagna dell’Unità che del partito. Io poi rimasi colpito dalle prime voci per un’altra ragione, che avevo conosciuto il fratello di Piero. E come? Lo avevo incontrato in Toscana, mi pare. Lui era uno studioso della letteratura del Novecento e ne dava una lettura che a me piaceva molto, soprattutto sul filone più caro alla nostra parte, quello ungarettiano e montaliano. All’inizio la stampa non scrisse nulla delle tante voci di corridoio sulle indagini che puntavano in alto. Poi cominciò una gara a rivelare dettagli sempre più scabrosi e a tirare in ballo nomi pesanti. Da chi le arrivò la soffiata sul coinvolgimento del figlio di Piccioni? Ricordo nettamente che le prime notizie, le prime spiate sugli ambienti di Capocotta dove si erano svolti i fatti e quindi la spinta a occuparci del caso vennero da Amintore Fanfani e dai fanfaniani. Furono loro a metterci sulla pista, spingendoci a "seguire bene" la cosa. E noi trovammo appoggio negli ambienti del ministero degli Interni, di cui Fanfani era titolare, dove c’era un segugio che ci passava informazioni. Fanfani era il leader della corrente opposta a quella di Piccioni. Non pensò che l’Unità correva il rischio di prestarsi a un regolamento di conti interno alla Dc? Che c’era una regia dietro lo scandalo o presunto tale? Fanfani era considerato l’uomo del futuro democristiano. Veniva dalla comunità del Porcellino, con Dossetti e La Pira. Si presentava come più sensibile ad aprire un dialogo coi comunisti. Nessuno scrupolo nel puntare il dito su persone, che poi risultarono estranee ai fatti, solo sulla base di voci? Ci gettammo come lupi su questo giallo. Fui assolutamente dominato dalla spinta a mettere sotto accusa il regime dc. Non dimentichiamo cosa erano quegli anni. Noi avevamo preso uno scacco grave nel 1948, che aveva dato spazio a quella parte della Dc più nettamente schierata per una guerra dichiarata con noi. Il ministro dell’Interno Scelba faceva sparare sulle manifestazioni di piazza, tutto sommato con la copertura da parte di De Gasperi. Sono anni di eccidi e di sangue, soprattutto nel Mezzogiorno, in Toscana e in Emilia. Questo era il clima. E giustificava la messa in stato di pubblica accusa di un giovane solo perché "figlio di"? Capisco la domanda, ma noi eravamo spinti a sviluppare una controffensiva a quello che era il dilagare della forza e della potenza della Dc. E la singolarità romanzesca del caso Montesi, con quella ragazza ritrovata su quel lembo di spiaggia, si prestava. Un giallo perfetto. Come direttore del giornale tenevo molto alla combinazione della battaglia politica con la narrazione giornalistica. Quindi stare sugli eventi anche di cronaca, associare alle grandi vicende di scontri e accuse col potere democristiano, il racconto della parte "nera". C’era il gusto di scoprire e montare gli scandali, accusando la Dc non solo sul terreno schietto dell’azione politica ma su quello della corruzione che dal potere veniva nella vicenda politica italiana. Lei direbbe lo stesso di Berlusconi? Una premessa. La mia critica a Berlusconi riguarda altre cose, la linea politica e le forze sociali che rappresenta. Ciò detto, non si può passare sopra questa vicenda delle fanciulle. E se il sexgate fosse un altro frutto avvelenato della lotta politica? Veramente non mi sembra. Mentre devo ammettere, col senno di poi, che non era successo nulla di particolarmente rilevante nel caso Montesi. Piccioni ministro non aveva nulla a che fare con quella gente lì, e forse anche suo figlio non era coinvolto direttamente. Ciò nonostante Piccioni si dimise, e non è cosa di poco conto. Gian Carlo Pajetta, altro dirigente del Pci, coniò un neologismo per indicare i protagonisti di questa videnda: i "capocottari", perché la casa dei misteri del caso Montesi era la tenuta di Capocotta del marchese Ugo Montagna. Era un modo molto efficace di definire tutto un ceto politico. Di cui peraltro Piccioni non faceva parte. Era figura storica della Dc, schierato nella lotta antifascista, personalità di risonanza europea, non uno dei democristiani tignosi, bensì cauto, riservato. In fondo, scatenavamo quell’attacco per colpire un dirigente che non era un bersaglio naturale, come poteva essere Scelba o uno scelbiano. In scandali di questo genere si dà molto rilievo all’eco che si produce all’estero. Colpire la politica di alleanze della Dc, la potenzialità di espansione, era un obiettivo, perché per loro era importante collocarsi in modo forte nello schieramento "americano". Un ultima domanda, tornando all’oggi. Giorgio Napolitano - con cui ha condiviso decenni di militanza nel Pci, seppur su fronti interni opposti - ha chiesto una sospensione delle polemiche sul presidente del Consiglio in occasione del G8 dell’Aquila. Rispetto molto l’opinione del presidente della Repubblica, però ho seri dubbi sulla sua proposta. Che significa sospendere una questione che brucia in questa maniera? Non parlarne più sui giornali? Ma il fatto ci sta, non si può cancellare l’oggettività degli eventi».