LEONARDO SERVADIO, Avvenire 1/7/2009, 1 luglio 2009
Periferie, la perdita del «centro» città ai margini/1 - Sono il punto dolente nella progettazione urbanistica moderna, luoghi che mutano velocemente, spesso privi d’identità
Periferie, la perdita del «centro» città ai margini/1 - Sono il punto dolente nella progettazione urbanistica moderna, luoghi che mutano velocemente, spesso privi d’identità. Parla Luigi Mazza - P eriferia: cioè, quel che ’gira intorno’. Il nome stesso implica un porsi in riferimento a un centro distante: qualcosa di più solido e vero, un luogo concreto e definito che da lungi si agogna in condizioni di subalternità. E in effetti nei decenni del boom economico le periferie urbane erano là dove si ergevano foreste di gru per dar vita agli esecrati quartieri dormitorio. Ma questo modello è finito ormai, insieme con la fine della grande industria. Questa si è trasferita altrove: interi impianti produttivi sono stati smontati e ricollocati lontano, dall’Italia alcune acciaierie sono state smontate e portate in Cina. E si è aperto il problema della nuova periferia dove al posto delle fabbriche sono rimasti dei vuoti, mentre i prezzi immobiliari, in quelli che erano quartieri dormitorio, sono andati alle stelle. Così da alcuni anni urbanisti, architetti, pianificatori, si interrogano su nuovi significati e inedite prospettive per questi spa- zi che ’stanno attorno’ e, col dilagare delle abitazioni sul territorio, finiscono per ’stare in mezzo’, come un tessuto connettivo che si estende a ricongiungere centri storici un tempo lontani e separati. Ma, a ben pensarci, non potrebbe essere che le connotazioni negative che abbiamo attribuito alle periferie nei decenni scorsi fossero un poco esagerate? Non è forse vero che la città si è sempre allargata per fasce concentriche – un tempo questo avveniva molto lentamente, oggi più tumultuosamente? «Al proposito – risponde l’urbanista Luigi Mazza – il riferimento culturale più utile mi sembra il pensiero di Henry Lefebvre, secondo il quale tra centro e periferie sussiste un legame necessario e indissolubile che quindi nega la subalternità delle seconde. Tuttavia al proposito distinguiamo tra periferia e aree suburbanizzate. Se nel caso di Milano possiamo parlare di periferia, in molte zone dell’Italia del Nord-Est vediamo invece pasticci suburbani. Perché Milano ha conosciuto un seguito di piani regolatori che si sono alternati dalla fine dell’800: il piano Beruto, il piano Masera e il piano Albertini, quest’ultimo degli anni ”30. Tutti questi hanno cercato di mantenere una griglia compatta in cui i raccordi stradali radiali collegavano la periferia che si estendeva lungo le circonvallazioni. Dopo il ”45 avviene un cambiamento radicale: si interrompe la griglia e nasce il concetto, che già era stato teorizzato dagli idealisti britannici, di quartiere autosufficiente: ognuno con un proprio centro. Questo porta a un rifiuto della città storica e della sua univoca centralità. Come nota Lefebvre, la fluidità, cioè la facilità dei trasporti, compensa il venir meno della compattezza. Tuttavia occorre mantenere una connessione simbolica, oltre che funzionale, tra centro e periferia....». Che vuol dire ’simbolico’ in tale contesto? «Un esempio. A Bolzano sono stati realizzati quartieri periferici molto ben studiati: chalet, piste ciclabili, panchine... Ma da una ricerca è risultato che gli abitanti vi si sentivano segregati: perché? In centro vi è un chiaro carattere urbano, dato da tanti elementi che segnano gli spazi pubblici: a fronte della qualità e grandiosità di questi, gli spazi periferici appaiono delle caricature che tolgono il senso di appartenenza. Questo si può tuttavia ricostruire, stabilendo connessioni di carattere simbolico, che potrebbero essere panchine uguali a quelle del centro, o statue della stessa qualità in mezzo alle piazze. Qualcosa che confermi li senso di appartenenza, anziché negarlo...». Quindi vi è un problema di connessione... «L’errore sta nel separare: a Milano questo è avvenuto nel nuovo quartiere Santa Giulia progettato da Norman Foster: staccato dalla città e al suo interno diviso tra zone di più facile accessibilità economica realizzata dalle cooperative, zone degli uffici, zona di edilizia di pregio con costi elevatissimi, paragonabili a quelli del centro città. Un’operazione che non ha incontrato la fortuna sperata, ha causato seri problemi economici al suo finanziatore che nel frattempo aveva intrapreso anche il tentativo della riqualificazione urbana delle aree industriali dismesse di Sesto San Giovanni tramite il progetto di Renzo Piano. Per il momento anche qui ora è tutto fermo». Ma sono problemi economici o urbanistici? «Tutti e due. Il progetto di Piano per Sesto è ben studiato in astratto, ma è anche un’occasione perduta. La città di Sesto non ha un centro definito, il nuovo intervento poteva essere un’occasione per costituirlo: doveva essere non un progetto integrativo, bensì sostitutivo di qualcosa che manca. Dare un centro ai quartieri periferici è essenziale: sia perché così si offre un luogo importante per la socialità e l’identità, sia perché attraverso il centro periferico si stabilisce il legame simbolico con la città storica». Quali i peggiori problemi delle periferie di oggi? «Anche qui, un esempio. Sono stato recentemente a un incontro in una ricca cittadina dell’hinterland milanese. Vi sono scuole ma non palestre o, se ci sono, non sono tenute in condizioni accettabili e non funzionano. Manca la manutenzione: cioè l’attenzione, la cura. Perché? Non mancano i soldi, tutto sta nel decidere dove investirli. Il problema è politico: già era chiaro ad Aristotele, che nella sua Politica parla di Ippodamo di Mileto, colui che un secolo prima aveva stilato il progetto urbanistico del Pireo e di altre zone, come di un politico. Urbanistica e politica vanno assieme e discendono da un’idea di società. Oggi mi sembra che sia questa a mancare». ( 1. Continua)