MASSIMO CENTINI, 1/7/2009, 1 luglio 2009
L’arpa del faraone e gli «spartiti» ritrovati - Il binomio musica Egitto antico fa soprattutto riaffiorare alla mente l’Aida o Il flauto magico
L’arpa del faraone e gli «spartiti» ritrovati - Il binomio musica Egitto antico fa soprattutto riaffiorare alla mente l’Aida o Il flauto magico. I più esperti penseranno all’Akhnaten di Philip Glas. Di contro, sembrerebbe esserci ben poco da dire sulla musica vera e propria, quella suonata al tempo dei faraoni. In realtà questa assenza è motivata dalla scarsa quantità di studi sull’argomento. Oggi questa lacuna viene brillantemente colmata da Maurizio Agrò, che nel prezioso libretto L’antico Egitto e la musica (Ananke Edizioni, pag. 122, euro 14,00) fa il punto sulla questione, ricostruendo la dimensione musicale che ha caratterizzato Egitto tra il IV e il I secolo a.C. Agrò è musicista e musicologo, insegna all’università dell’Aquila e oltre ad occuparsi della storia si è anche ap- plicato nell’esecuzione, dopo la ricostruzione degli strumenti, della musica suonata sulle rive del Nilo. La mancanza di una qualche forma di teoria musicale scritta e codificata, ha reso ovviamente difficile la comprensione e l’interpretazione della qualità artistica dei musicisti egizi. L’autore però non si è arreso e mettendo insieme i materiali provenienti dall’archeologia (alcuni strumenti musicali sono stati rinvenuti nelle tombe), le testimonianze di cronisti coevi e soprattutto un’ampia iconografia è riuscito a gettare le basi per una riscrittura degli ’spartiti’ dell’epoca. Nel libro l’autore guida il lettore in una sorta di museo musicale, ponendo in rilievo l’importante legame che univa musica e culto: binomio che può essere considerato il fulcro sul quale poggiava molta della teoria e della pratica strumentale. In questo senso è indicativo che anche la musica sia stata coinvolta nella ’rivoluzione’ attuata da Akhnaten in occasione della momentanea affermazione del culto monoteista. Agrò riporta e commenta anche alcune canzoni egizie: testi naturalmente ’datati’, in cui però, oltre alle prerogative culturali caratteristiche dell’epoca, sono in nuce presenti molte delle istanze che affliggono o fanno gioire l’animo umano, ancora oggi. Da Erodoto apprendiamo che, tra gli egizi, i cuochi e i musicisti ereditavano il loro mestiere dal padre: un indizio fondamentale, che pone in rilievo l’assenza di una vera e propria ’scuola’ di musica. L’arte del suono faceva quindi parte di un patrimonio familiare, che veniva trasmesso generazionalmente, come un sapere antico e importante. Tra gli strumenti maggiormente utilizzati nell’Egitto dei faraoni dominavano l’arpa, il flauto, le clappers (nacchere), il memet (sorta di oboe), il liuto, la lira, il tamburo, la tromba, il sistro. L’orchestrazione di questi strumenti (tutti sono stati rinvenuti nelle tombe) consentiva esecuzioni articolate che oggi è in parte possibile riscrivere per rivivere le atmosfere del tempo. Il libro è completato da un capitolo sul ruolo dell’Egitto nella musica del XVIII/ XIX secolo: pagine che pongono in evidenza quanto forte fu l’influenza di quella terra nella cultura europea nei secoli in cui era travolta da una sorta di Egittomania. Una ’moda’ forse, di certo il gusto per una cultura che è rimasta fortemente impigliata nell’immaginario occidentale.